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John Lennon (9 ottobre 1940 – 8 dicembre 1980). Musicista. Assassinato.

«The guitar’s all very well, John, but you’ll never make a living out of it» (la zia Mimi).

Era successo.
Non potevo crederci, ma nonostante il periodo fosse costellato pressoché quotidianamente da notizie di eventi luttuosi per mano criminale, questa era davvero troppo: gli Eroi non dovrebbero mai soccombere, giusto? Eppure alcuni lo diventano proprio in quelle occasioni, quando compiono l’ultimo atto.
Mentre John no, lui non era quel tipo di eroe: lui aveva convinto molti, moltissimi, che valori quali la pace, la non violenza e la cura dello spirito fossero tutto ciò in cui si dovesse credere, e lo aveva affermato anche nella propria incoerenza, dimostrandosi fallace, quindi umano e non il dio che alcuni volevano diventasse, in modo da sfruttarne l’aura.
Manipolatore e manipolabile, instabile, rissoso, soggiogato dall’unica donna che potesse tenergli testa (di ben sette anni più grande e probabilmente non senza motivo), ma artista di livello non comune, benché avesse espresso il massimo all’interno del magico equilibrio creato dalla formula del quartetto più famoso (e assolutamente più grande e importante, non solo musicalmente) del mondo, così famoso da fargli dire che fossero “più noti di Gesù“.
Aveva appena compiuto 40 anni, che a noi teenager dell’epoca parevano già un’età considerevole per una rockstar, tenendo conto di quanto Elvis fosse un simulacro di sé stesso nel momento in cui, proprio nell’anno dell’esplosione del punk (e quale ironica coincidenza!), lasciava questo mondo a soli 42 anni, strafatto di medicinali e anfetamine, ingloriosamente assiso sull’unico trono sul quale mai avrebbe voluto farsi trovare. Non ci eravamo ancora ripresi da quello choc. E non erano poi molti i miti musicali più vecchi.
40 anni, sì, nei quali Mr. Ono Lennon, come si era registrato all’anagrafe dopo il matrimonio, aveva espresso un talento formidabile e per festeggiare i quali si era regalato un ritorno discografico all’altezza della sua fama, dopo alcune prove discrete ma a tratti tentennanti.
Di (Just Like) Starting Over andava, giustamente, molto fiero: un singolo “passatista” che era esattamente ciò che ti saresti aspettato da un ex Beatle, in quel momento, e che infatti scatenò quella “voglia di anni 60” che avrebbe orientato almeno metà della scena pop del decennio che stava per iniziare, tesa all’aggiornamento del canone, aggiungendovi modernità strumentale (i synth, il big drum sound, lo slap bass), o semplicemente replicando quelle atmosfere per vestire canzoni moderne. Curiosamente, fu l’unico degli “originali” a non farsi cogliere impreparato, pur limitandosi a ciò che sapeva fare meglio: formidabili pop song da tre/quattro minuti. I coretti in stile doo-wop, di stampo spectoriano, erano il colpo di genio, assieme al ritmo “trascinato” che quasi ricalcava quello di Instant Karma. Lui e Phil Spector avevano collaborato, in passato, fin dallo scempio perpetrato ai danni di “Let It Be“, uno dei rari casi in cui Spector non centrò l’obiettivo, danneggiando un’opera che avrebbe posto la parola fine sul sodalizio dei quattro di Liverpool, ma poi riscattandosi con quel primo lavoro solista post-Beatles, “John Lennon/Plastic Ono Band“.Harry Nilsson Pussy Cats
E avrà proprio in mente il “wall of sound” spectoriano, il nostro John, quando si ritroverà a produrre “Pussy Cats“, un disco di Harry Nilsson, suo sodale durante il famoso “lost weekend” del 1973, che si protrasse per 18 mesi durante i quali John, la sua “amante autorizzata” (addirittura suggerita da Yoko in persona) May Pang, e l’assurdo terzetto composto proprio da Nilsson con Ringo Starr e Keith Moon degli Who, si trasferiscono tutti a casa dello stesso Harry, e chissà che vita avranno condotto: non indaghiamo oltre, considerando i fiumi di alcool e droghe che consumarono in quantità…Walls and Bridges
Periodo comunque formidabile dal punto di vista creativo: “Mind Games” il frutto migliore, ma qualcosa di buono ci sarà anche in “Walls And Bridges” e nella rivisitazione delle proprie influenze pleonasticamente intitolata “Rock And Roll“, un amarcord supervisionato e arrangiato proprio da Spector in condizioni critiche, a causa delle dipendenze del suo cliente. Al punto che, esasperato, Phil si porterà via i nastri e Lennon ci metterà una vita per riaverli, tanto che l’album uscirà circa un anno dopo le registrazioni, nel 1974.
Ma si registrano anche collaborazioni con David Bowie (il gioiello “Young Americans” contiene un paio di sue apparizioni, anche sotto l’aspetto compositivo, compresa una cover di Across The Universe resa magnificamente dal Thin White Duke, in quel periodo molto “thin”, dato che la sua dieta era rappresentata quasi esclusivamente da cocaina e anfetamine) e Mick Jagger.
Sarà Elton John, invece, ad offrirgli la possibilità di esibirsi per l’ultima volta dal vivo, al Madison Square Garden, chiamandolo sul palco per alcuni brani durante un suo concerto.
A precedere questi, “Imagine“: disco che è forse l’unico riuscito esattamente come l’autore immaginava (perdonate il gioco di parole), intitolato come la canzone più controversa che ci sia, amata e detestata in eguale misura, oggi quasi raggiunta da Halleluja di Leonard Cohen, ovvero quelle composizioni talmente “classiche” da diventare patrimonio universale, e fin qui nulla da eccepire, ma purtroppo buone per tutte le occasioni, utilizzabili in ogni contesto.Two Virgins
Il nuovo album tornava a presentare il binomio John Lennon & Yoko Ono nell’intestazione di copertina. Non succedeva da “Some Time In New York City” (1972), e prima c’erano state le fughe extra-Beatles dei due non entusiasmanti volumi di “Unfinished Music“: il Vol. 1, sottotitolato “Two Virgins” (e caratterizzato dallo scatto di copertina rappresentante i due “in costume adamitico”, come riportavano le cronache del 1968), cui l’anno successivo faceva seguito il secondo capitolo, dal sottotitolo meno compromettente, “Life With The Lions“, e una anonima copertina accettabile per chiunque. Sempre nel 1969 vedrà la luce il “Wedding Album“, altro episodio trascurabile.
Il 9 novembre 1980, esattamente un mese e un giorno dopo il suo compleanno, le buone sensazioni generate dal singolo trovano compimento in “Double Fantasy“. Double Fantasy
Alzi la mano chi l’ha ascoltato tutto di seguito più di una volta. Conosco un sacco di gente che aveva registrato su cassetta le sole tracce di Lennon, per evitare di sorbirsi quelle di Yoko Ono e non doversi alzare dal divano ogni volta per riposizionare la puntina: ma che ne sanno quelli della generazione del CD (benedetta sia la funzione “skip”) e i millennials, abituati alla musica liquida!
In realtà, siamo forse troppo ingenerosi con la giapponese più detestata al mondo, ma non è questa la sede per approfondire il suo contributo a quest’album. A noi rimane quella sensazione di leggero smarrimento data da canzoni come Woman, efficace dal punto di vista melodico, ma liricamente non convincente, nell’esprimere una generica ammirazione per la Donna secondo cliché retorici un po’ banali, o il “chiamarsi fuori” di Watching The Wheels, musicalmente ineccepibile; episodi come la tenera dedica augurale al figlio Sean, Beautiful Boy (Darling Boy), nella quale è ripresa la famosa frase del fumettista Allen SaundersLa vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altri piani“, dalla quale traspaiono il rimpianto per non essere stato abbastanza vicino al primo figlio, Julian, col quale aveva da poco riallacciato un vero rapporto, e l’ansia di non ripetere lo stesso errore; o l’imbarazzante esuberanza quasi adolescenziale di Dear Yoko.
Personalmente, all’epoca ero rimasto molto colpito dal funky di Cleanup Time, riferendosi ad un genere che da poco andavo frequentando, mentre mi appariva classicamente lennoniana I’m Losing You, le cui liriche, rilette retrospettivamente, paiono quasi profetizzare la tragedia che sarà.
Tragedia frutto della follia di Mark David Chapman, fan deluso dalla contraddittorietà della vita privata di Lennon rispetto alle dichiarazioni pubbliche e ai testi delle sue canzoni, con la solita aggiunta di paranoia pseudo-religiosa (“Era il volere di Dio!“). Tragedia cui seguiranno le solite teorie cospirazioniste, ancorché ispirate dalla realtà: il musicista fu “attenzionato” (leggasi “spiato e controllato“) dall’F.B.I., in quanto sospettato – sic! – di attività comunista (e parliamo già degli anni 70, eh?).
Tragedia che getterà i fan nella disperazione e sancirà la fine dell’idea, sempre coltivata sottotraccia, di una reunion del quartetto.
Tragedia che ci commuove ancora, a quarant’anni di distanza.
40 anni, l’età che aveva John Winston Ono Lennon, da Liverpool, ucciso l’8 dicembre 1980 da un pazzo davanti al Dakota Hotel di Manhattan, New York City: il posto che più amava.
E no, non è affatto giusto che sia finita così.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".