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Gaucho: quarant’anni di piacevole eleganza.

Mario (il nome è di fantasia) aveva questa tendenza a recepire per primo le mode, nonché a seguirle finché erano “trendy”, per poi guardare con occhi compassionevoli coloro che l’avevano seguito lungo la strada che lui aveva già abbandonato, sterzando bruscamente a quell’incrocio che la maggior parte di noi aveva attraversato, convinti come eravamo di avere la precedenza. Era così che era passato improvvisamente dal punk ai Kiss nel periodo dei loro album solisti, tanto da affrontare persino l’acquisto della sua prima chitarra elettrica mettendo le mani su una IbanezPaul Stanley” che, almeno esteticamente, strideva con la successiva svolta: l’easy listening, come lo chiamava lui, privilegiandone il côté soft rock californiano.
L’innamoramento era stato causato da una radio locale che trasmetteva dischi di Robbie Dupree, Stephen Bishop, Bread, Eric Carmen, Air Supply, i famigerati Exile e, naturalmente, “quel genio assoluto di Michael Franks“.
Accidenti: il punk ci aveva uniti, ma Franks & Co. erano davvero pallosissimi, per me.
Eppure, c’erano stati un paio di precedenti inversi. Solo un paio d’anni prima, proprio mentre lui smaltiva la sbornia per i Sex Pistols (essendo affascinato principalmente dal fenomeno, ignorava bellamente Clash, Damned, Stranglers e compagnia cantante, tutti eroi del sottoscritto), io mi ero trovato a fare i conti con il mio apprezzamento dell’ubiquità di “Rumours” dei Fleetwood Mac, di “JT” di James Taylor e “52nd Street” di Billy Joel, per non dire di “A Single Man” di Elton John: insomma, a certi suoni più “morbidi” c’ero arrivato prima io, che diamine, di che potevo lamentarmi?
Ma adesso eravamo quasi alla fine del 1980, ci si affacciava su un nuovo decennio che prometteva grandi cose (poveri noi: non sapevamo di essere appena entrati in una fase in cui ogni altro anno “0” avrebbe rappresentato la medesima, bugiarda, promessa) ed ero smanioso di scoprire novità da proporre al mio amico, per fargli capire che avevo gusti miei che potevano essere condivisi anche da lui.

Avevo nuovamente cambiato scuola, distante da casa ma un ambiente giusto per me, uscendo dalla quale avevo preso l’abitudine di fare un giro un po’ più lungo rispetto all’andata. Il senso era quello di percorrere un pezzo di strada assieme ad alcuni compagni che erano diventati (e sono ancora) miei ottimi amici, il che comportava un cambio di mezzo pubblico alla stessa fermata presso la quale loro giungevano a destinazione. Proprio lì di fronte c’era, all’epoca, un negozio di dischi che incredibilmente praticava l’orario continuato, stranezza incongruente rispetto al periodo e alla posizione semi-periferica, ma una manna per noi squattrinati, essendo più che altro votato alle offerte e all’usato.
Ogni settimana, però, mettevano in vetrina la novità che godeva della preferenza dei titolari, il più delle volte roba commerciale italiana o jazz, ma ogni tanto ci prendevano proprio.
Quel venerdì 21 novembre 1980, giornata che era partita malissimo con la notizia di un grave incidente ferroviario accaduto nella notte vicino a Lamezia Terme ed era proseguita sull’onda emotiva della tragedia, causando un pesante mutismo lungo il tratto di percorso coi miei amici prima di veloci saluti distratti, ero appunto a quella fermata con lo sguardo rivolto a terra.
Avevo bisogno di conforto, quel tipo di consolazione che solo la musica riusciva a darmi. Buttai l’occhio dall’altra parte della strada. La vetrina presentava una copertina stilosa, uno sfondo elegantemente grigio sul quale campeggiava un quadro rappresentante una coppia impegnata in un ballo, quasi certamente un tango, anche se la deduzione era condizionata dal fatto che sul lato, sotto il nome di quello che pareva un solista, vi era un ingannevole titolo esotico: “Gaucho“.
Mi voltai a sinistra e scorsi in distanza il tram, considerai che avevo ancora il tempo di un paio di fermate prima che giungesse alla mia: attraversai ed entrai nel negozio convinto di portarmi a casa il disco di musica sudamericana col quale già pregustavo di stupire il mio amico “modaiolo”, quando sentii provenire dalle casse una canzone sorprendente per l’efficacia della anomala melodia e la cadenza raffinata. Chiesi di chi si trattasse e scoprii che quello che stavo per portarmi a casa non era affatto il disco di un cantautore sudamericano dal nome eccentrico, bensì l’ultimo, splendido album di una band (in effetti, a quel punto ridotta a un duo circondato da lussuosi turnisti) d’origine newyorchese, poi trasferitasi a Los Angeles (e che per giunta prendeva il nome da un dildo a vapore, come scoprii alcuni anni dopo leggendo “Il Pasto Nudo” di Burroughs).
Spesi tutto ciò che avevo in tasca, dato che il mio pusher aveva approfittato del fatto che ormai avevo perso il tram per propormi anche un’opera precedente, “Katy Lied“, che “era proprio andata in linea economica durante la settimana precedente“: guarda te, il caso…
Fu così che scoprii gli Steely Dan, o, meglio, “Gaucho“, dato che l’altro disco lo lasciai da parte alcuni giorni, totalmente rapito dalla perfezione raggiunta da una commistione di generi che andavano dal jazz, al soul, al country rock, l’eco dei quali era ben percepibile all’ascolto. Ignoravo che tutta quella perfezione non fosse solo apparente: la maniacalità con la quale Walter Becker (chitarra, basso, cori: era amico di Randy California degli Spirit, gruppo la cui influenza è avvertibile nelle prime opere del duo) e Donald Fagen (voce, tastiere) avevano condotto le registrazioni, risalenti al 1978, era culminata con l’ingaggio di Mark Knopfler, molto apprezzato dai due dopo averlo ascoltato e apprezzato in Sultans Of Swing, cui fecero registrare ore (qualcuno asserisce decine) di musica, per poi ricavarne un assolo di poco meno di 40 secondi al termine di Time Out Of Mind, ma rimangono leggendari anche i circa 60 (sessanta!) tentativi differenti di missaggio del finale sfumato (circa 50 secondi, per la cronaca) di Babylon Sisters, la splendida canzone d’apertura. Cose che capitano quando hai a disposizione più di 40 musicisti e 11 ingegneri del suono. Insomma: i crolli nervosi furono più di uno, anche perché durante le registrazioni capitò di tutto, a partire dalla ragazza di Becker che venne rinvenuta morta per overdose: Walter, che da tempo combatteva con la sua dipendenza, viene accusato di esserne responsabile, anche se sarà poi scagionato, rimanendone scosso permanentemente. Nel mentre, rischierà persino perdere l’uso di una gamba finendo sotto a un taxi: tipo fortunato, il nostro. E che dire della cancellazione accidentale dei nastri dell’ottava canzone che doveva apparire sull’album? Non riusciranno più a replicarla allo stesso modo, e quindi niente: una di meno, mai più riproposta. Non è, quindi, un caso se dopo il missaggio i due si separeranno, impiegheranno tredici anni prima di riunirsi per una tournée (evento, dato che dal giugno 1974 non salivano su un palco) e un tondo ventennio prima di trovare l’ispirazione per pubblicare un nuovo album sotto l’egida gloriosa, faccenda replicata ancora un paio d’anni dopo, poi rimasta ferma fino alla prematura dipartita di Becker, nel 2017.
In mezzo, come sapranno anche i sassi, Fagen darà alle stampe un capolavoro (“The Nightfly“, 1982) e tre ottimi album (uno dei quali, “Kamakiriad“, 1993, prodotto da Becker), mentre il sodale si dedicava alla produzione (Rickie Lee Jones e… Michael Franks!), oltre alla partecipazione al progetto China Crisis e ad un album a suo nome, prodotto da Donald (“11 Tracks Of Wack“, 1994).
Ma si parlava di “Gaucho“.
Ascoltatelo, questo disco: la finta indolenza di Babylon Sisters, la contenuta esuberanza di Hey Nineteen, che come la successiva Glamour Profession già contiene tutti gli elementi che faranno la fortuna di “The Nightfly“. Il cambio di facciata è inaugurato dalla title track, jazzata e arricchita dai fiati, ma che si rivelerà causa di attriti con Keith Jarrett che li accusò di aver plagiato la sua Long As You Know You’re Living Yours, ottenendo di essere accreditato tra gli autori; il retrogusto californiano à la Doobie Brothers (ma non c’è forse Michael McDonald, ai cori?) di Time Out Of Mind; l’atmosfera pensosa, tesa di My Rival, col suo ritmo sornione alla Al Green: a caccia del rivale, nella notte. E se lo becco…
Poi, tutto si quieta: Third World Man è jazz-soul, caldo e avvolgente, un attimo prima di salutarsi, in un imprecisato giorno del 1978, diciamo un giorno prima che infinite beghe legali tra le etichette che erano entrate in gioco spostassero continuamente la data d’uscita fino al 21 novembre di ben due anni dopo, per il conforto di un diciassettenne che avrebbe rimandato ancora per un (bel) po’ la scoperta delle musiche del sub continente americano, trovando più intrigante l’elegante mistura di soft rock californiano e cool jazz newyorchese resa da quelli che mi piaceva considerare due eccentrici pazienti dei medesimi illustri psichiatri di Woody Allen.

Di “Katy Lied“, altro gioiello, vi parlerò magari in un’altra occasione.
Ah, già: e Mario? Quando presentai al mio amico la mia scoperta, mi squadrò con aria di sufficienza dicendomi che “naturalmente li conosceva già“, ma qualche tempo dopo lo sorpresi a un semaforo col finestrino abbassato e indovinate un po’ cosa usciva dalle casse dell’autoradio?

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".