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Paolo Bonfanti: il Blues è casa mia

Ci sono i concerti, certo. E poi ci sono “I Concerti”. Per i veri appassionati di rock & dintorni, come si diceva un tempo, l’evento live comincia dal momento in cui vedi la locandina, anche adesso che è ridotta a un quadratino che ti balza agli occhi mentre scorri i post su Facebook, o che ricevi da amici su WhatsApp: il senso è sempre quello di predisporti all’attesa, al viaggio con gli amici di tante battaglie, alla condivisione di un rito, con aggiunta di nuove leve. Quando, poi, l’appuntamento si ripete nel tempo, come nel caso di certi festival, allora il rito te lo gusti ancora di più, ti godi anche quei momenti che sai già che giungeranno e studi le espressioni di chi si aggrega per la prima volta, leggendo nei loro occhi e sorrisi le stesse emozioni già provate da te decine di volte.
“Mataria ‘d Langa” è quella roba lì, da trent’anni porta il rock and roll più militante ed operaio, quasi in contrasto con quello più intellettuale che va in scena a “MonfortinJazz” o quello più “celebre” di “Collisioni”: un’unica strada che collega Barolo, Monforte d’Alba e Roddino, tre diversi modi d’intendere la musica? No, solo tre approcci complementari. Ma a Roddino sei in famiglia, sei “coi tuoi”: sono di nuovo in scena i Gang, è tornato di nuovo anche Paolo Bonfanti. E le sue parole dopo il concerto, registrate con lo smartphone, che raccoglie anche le campane a scandire le ore che passano, sono la dimostrazione di quanto appena espresso.

Comincia tu, Luca.

Luca Battaglia: “Ora dobbiamo essere terribilmente seri, perché siamo al cospetto della mano sinistra del diavolo, il mancino del blues italiano, l’uomo che trasforma i Gang in una “rock and roll machine”: quando suoni con loro avverti questa responsabilità?”

Paolo Bonfanti: “Mah, più che di responsabilità parlerei di vero piacere, perché di momento di gioia si tratta. A parte che la Gang è già una macchina da guerra rock, anche se stasera hanno espresso maggiormente il loro lato romantico e questo ha probabilmente dato l’idea che i momenti più aggressivi fossero dettati dalla mia apparizione sul palco: ma è stata solo coincidenza. Terrei, però, a sottolineare che il Festival ‘Mataria ‘d Langa’ è sempre un luogo particolare: io dico sempre che Roddino per la Gang è come Castagnole Lanze per i Nomadi, ovvero il posto in cui l’accoglienza riservata al gruppo assume i toni del rito celebrativo collettivo. La magia che si compie in questo luogo è indescrivibile”.bonfanti intervista

L.B.: “Quello che è mancato è il classico ‘passo del papero’: è  possibile che Marino sia un po’ invecchiato?”

P.B.: “No, credo che vi siano due motivi: il primo è legato al fatto che dopo il lockdown siamo tutti più attenti  ai movimenti, perché siamo condizionati dalle norme anti Covid, mentre il secondo è di carattere più pratico, perché essendo io mancino, tendo a condizionare la disposizione degli altri sul palco, specie se sono già numerosi, quindi diventa difficile per tutti eseguire i soliti movimenti”.

Massimo Perolini: “Anche nei brani più rock and roll, il tuo approccio è sempre molto legato al blues: un genere che oggi mi pare stia attraversando una stagione poco esaltante in termini di riscontro. Concordi?”

P.B.: “Sì, la tua impressione è giusta: ma il blues ha sempre subito questo andamento altalenante, ci sono periodi in cui è in auge, cui ne seguono altri come quello attuale in cui risulta più appannato. Ma c’è sempre: scorre perennemente, magari in certi periodi sottotraccia, poi riemerge quando è ora“.

M.P.: “Cosa ha da offrire, oggi, un musicista a un genere così arcaico e abusato?”

P.B.: “Guarda, per me il blues è ‘casa’, è il luogo al quale tornare sempre, quello in cui cercare ispirazione e dal quale partire per allontanarsi, per affrontare altri generi, anche i meno prevedibili: il prossimo 15 novembre compirò 60 anni: per l’occasione pubblicherò un nuovo disco. Sarà un disco molto strano, poco blues, ma ho potuto realizzarlo proprio perché so che quella ‘casa’, quel porto sicuro delle 12 battute, saranno sempre pronti a riaccogliermi, anche in un momento di difficoltà per questo genere sempiterno”.

M.P.: ”Forse il senso sta proprio in questa ‘circolarità’ garantita dalle 12 battute, dal continuo ritorno degli accordi, sempre uguali ma inspiegabilmente sempre nuovi”.

P.B.: ”Certo, è proprio così! Come tutte le musiche popolari, dalla tarantella, alle gighe, fino alle danze occitane, anche il blues è una musica circolare: probabilmente è questo a renderlo immortale, vai a sapere”.

L.B.: “Posso chiederti cosa ne pensi di un sogno che coltivo da tempo? Mi piacerebbe vedere te e Marino , che se non ricordo male ha una passionaccia per i Rokes, alle prese con un album di riprese dei classici del ‘bitt’ italiano più significativi per voi”.

P.B.: “Eccome! Anzi, rilancio: aggiungerei anche quella psichedelica che ancora non sconfinava nel prog…”

M.P.: “…tipo le prime Orme?”

P.B. “Sì, o i primi New Trolls, per citare miei conterranei che ricordo benissimo ai tempi: sarebbe interessantissimo. In realtà abbiamo parlato spesso di possibili collaborazioni, ma la distanza è un ostacolo non indifferente: Marino sta nel sud delle Marche, io a Casale Monferrato, in Piemonte. Ma un disco del genere potrebbe avere un’ottima eco, a mio parere”.bonfanti

L.B.: “A questo proposito, la tecnologia è stata di grande aiuto durante la pandemia: ha allontanato il pubblico, ma paradossalmente ha reso forse ancora più ‘diretto’ il rapporto tra i musicisti”.

P.B.: “Può essere, ma non mi convince. Intendiamoci: non è che io sia nemico assoluto della tecnologia: oggi, se fai un assolo perfetto in cui sbagli un’unica nota, puoi intervenire chirurgicamente cambiando solo quella, invece di rifarlo dieci volte finché viene come vuoi. Ma un disco del genere va fatto guardandosi in faccia, in uno studio: la musica dovrà tornare ad essere quella cosa vera, quella ‘vita reale’ che è giusto che sia e della quale tutti abbiamo bisogno. La gente oggi può ascoltare ovunque ciò che desidera, ma quello che manca sono i concerti, la musica dal vivo: un motivo ci sarà, no?”

L.B.: “Tu hai suonato spesso in contesti  quali concerti in altura, in parchi o nei boschi: la visceralità del blues quanto è legata agli aspetti ambientali?”

P.B.: “Beh, ma il blues è nato nei campi di cotone, quindi da sempre è legato alla terra, viene dalla terra, quella più sporca e fangosa (non a caso uno dei più grandi interpreti fu battezzato ‘Muddy Waters’, perché da ragazzino si buttava nelle pozzanghere di strade sterrate), quindi sì, è una musica assolutamente terrena, anzi terrigna. Il legame è assoluto, dunque, ma la terra va rispettata, perché se continuiamo a stressarla ci spazzerà via come pezzetti di RNA: dobbiamo tornare ad essere umili. D’altronde, humilis deriva da humus: vicino alla terra”.

M.P.: “Qual è stata la scintilla che ha spinto Paolo Bonfanti a dedicarsi alla musica?”

P.B.: “È stato un percorso strano, a pensarci bene. Un giorno mia mamma si mise in testa di imparare a suonare la chitarra, non ho mai capito perché, quindi ne comprò una, ma l’abbandonò quasi subito. La presi in mano io, ma mi ci volle del tempo prima di capire che, essendo mancino, non bastava girarla, ma dovevo anche cambiare la disposizione delle corde. Ma il vero momento che mi fece decidere di fare il musicista di professione fu un concerto che feci con un gruppo alla fine degli anni 70: suonavo la batteria (mio nonno era un batterista jazz, quindi avevo avuto un buon maestro). Al termine, ero talmente eccitato che decisi che quella sarebbe stata la mia vita”.

M.P.: “Quindi, nessun personaggio o disco particolare: fu una scelta molto autonoma, intima”.

P.B.: “Diciamo che fui anche aiutato dal fatto di vivere in una famiglia di musicisti, sia professionisti  che dilettanti, quindi nessuno ostacolò la mia scelta: non posso raccontare di cinghiate e inviti a trovarsi un lavoro serio, insomma (ride, ndi). Pensa che uno zio era violoncellista nell’orchestra della Scala diretta da Abbado: lui sì che ha fatto tournée importanti, persino in Unione Sovietica, Giappone, U.S.A.”.

M.P.: “Quindi il blues è venuto dopo: prima la volontà di fare il musicista, poi il genere cui riferirsi?”

P.B.: “In un certo senso, sì. Ma nonostante io non abbia mai suonato rigorosamente blues, i primi contesti importanti in cui ebbi modo di esprimermi furono quelli del circuito di Fabio Treves: fu grazie a lui che potei affrontare grandi platee. Ecco perché, nonostante le mie divagazioni in altri generi, dico che il blues per me è ‘casa’.

L.B.: “Ma c’era una sorta di rito iniziatico, per entrare nella corte di Fabio Treves?”

P.B.: “No, assolutamente. Diciamo che andando a casa sua era importante non essere interista: è un milanista sfegatato, quindi se non tifi Inter parti già bene (ride, ndi). No, a parte gli scherzi: a Fabio deve andare la gratitudine di tutti quelli che sono venuti dopo di lui, perché ha dato una mano a chiunque avesse un minimo di talento. Ha sempre ascoltato tutto ciò che gli mandava anche il più oscuro gruppetto di ragazzini, senza preclusioni. Manda ancora gli auguri di Natale a tutti, TUTTI, i suoi contatti, spesso invia delle mail per avere notizie da chi magari è un po’ sparito dai radar. Nessuno ha fatto più di lui per la diffusione del blues in Italia, non smetterò mai di essergliene grato”.

M.P.: “E più in generale, al di là dei generi, come vedi la situazione attuale, nella quale un linguaggio un tempo così importante come la musica ha smesso di essere autonomamente rilevante, non viene più veicolato in quanto tale ma solo quale commento sonoro a spot pubblicitari o intermezzo tra gli sproloqui dei conduttori radiofonici, personaggi oggi sempre più legati all’attualità e che non esprimono un gusto proprio, essendo le radio massificate, tutte uguali, prigioniere dell’heavy rotation che anche cambiando canale ti condanna a sentire sempre le stesse canzoni?

P.B.: “Il discorso viene da lontano, da quando si è cominciato a non vendere più i dischi: le uniche fonti di introito, oltre all’attività dal vivo, sono garantite ormai solo dai proventi SIAE derivanti dai passaggi televisivi o radiofonici. Aggiungiamo che le Società degli Autori ed Editori esistono in tutto il mondo, ma solo la SIAE è strutturata in modo che un numero estremamente ristretto di soci percepisca la quasi totalità dei proventi: è come se solo una decina di autori e cinque editori (per fare dei numeri, ma non sono molto distanti dalla realtà) ottenessero il 90% dei ricavi. Una peculiarità italiana che adesso esce fuori più che mai, ma è un po’ tardi: ormai anche la musica distribuita a livello digitale ha cessato di essere remunerativa, se non per le corporation che gestiscono lo streaming lasciando ai musicisti pochi spiccioli (parliamo veramente di pochi centesimi!) dopo aver dato loro l’illusione di abolire il filtro dell’organizzazione delle etichette, che erano il ‘mostro’ che prima ti toglieva parte dei guadagni con la scusa della promozione. Non dimentichiamo, poi, che come ho accennato prima, siamo ancora il Paese in cui quando dici che sei un musicista, uno scrittore, un giornalista, ti senti chiedere: ‘sì, ma di lavoro cosa fai?’. Pensa che da noi cominciamo solo oggi a creare classi scolastiche a indirizzo musicale: roba che in Chad, per dire, magari si faceva già negli anni 40. Speriamo serva, ma la sensazione è che i treni siano già passati, dato che il fenomeno che esprimevi nella tua domanda è ormai esteso oltre i confini di questa nostra Italia, da sempre poco avvezza ad apprezzare la cultura e i suoi protagonisti”.

bonfantiM.P.: “Infatti: nel liceo di mia figlia c’è una sezione musicale, ma la sensazione è che sia frequentata da ragazzi consapevoli che quasi certamente non diverranno mai musicisti professionisti, quindi che operano una scelta lontana dal Conservatorio per avere comunque una seconda strada percorribile. Mentre il discorso sul digitale è più sfaccettato: il pubblico pensa che gratis sia più bello, si fa attirare dallo streaming e scarica tutto ciò che può, imbottendo hard disk che non ascolteranno mai: sei d’accordo?”

P.B.: “Assolutamente. Un motivo è anche legato al fatto che oggi non ti devi più ‘conquistare’ nulla: una volta prendevi un disco, passavi ore a cercare di replicare un assolo, mettevi la velocità a 16 giri per seguirlo al rallentatore (spesso senza capire comunque nulla, per via della distorsione del suono), ora qualsiasi ragazzino può imparare cose complicatissime con un semplice tutorial su YouTube e diventare un mostro di tecnica. Ma, appunto, in un mondo omologato ‘al rialzo’ non emergono più i talenti naturali, quelli che un tempo avevano anche l’estro compositivo, e giustamente nessuno potrà guadagnare più di altri: io lo dico sempre ai miei allievi che mi chiedono se vi siano possibilità di carriera: se trovate un lavoretto part time è meglio che lo prendiate, perché oggi è più facile che quello diventi full time piuttosto che sfondiate nel mondo del pop. E sull’archiviazione compulsiva direi che la raccolta dei dati digitali ha sostituito il collezionismo di lattine o tappi di birra: accumuliamo patologicamente tutto. Grandi istituzioni quali la Libreria Del Congresso americana e altre prestigiose Accademie hanno già lanciato l’allarme perché siamo ormai al limite: lo spazio digitale è al collasso. Umberto Eco e Borges scherzavano sul fatto di leggere tutti i libri del mondo, ma è proprio vero che il tempo della nostra vita non ci basterà mai nemmeno a coprire un decimo della disponibilità ascolti, letture, visioni, visite di luoghi d’arte… Ormai è una questione puramente maniacale”.bonfanti

L.B.: “ Torniamo allora coi piedi per terra, con una domanda che mi sorge spontanea: hai sentito le ultime uscite dei Rolling Stones? Cosa ne pensi?”

P.B.: “Sì, ho sentito Ghost Town e anche la prima outtake di ‘Goats Head Soup’. Un amico giornalista, che non nomino, mi diceva giusto un paio di giorni fa: “Tutti i gruppi dagli anni 90 in poi cancellati da una outtake di un disco minore di quasi cinquant’anni fa”. Ho riso, ma un fondo di verità c’è. Parliamo di gente che è nata a Londra sotto i bombardamenti, un  ‘Crossfire Hurricane’, quindi gente che può tutto: e che gli vuoi dire? La cosa triste è che praticamente siamo ancora fermi lì: ci vorrebbe un’altra epoca come gli anni 60, piena di creatività e proiettata nel futuro. in fondo, il momento che stiamo attraversando è stato paragonato a una guerra, quindi vediamo cosa succederà dopo”.

M.P.: “E allora, per concludere, dimmi tre dischi da mettere nella tua valigia per l’isola deserta: non gli unici che puoi portarti, ma tre che non possono mancare”.

P.B.: “Accidenti, questa è difficile.. vabbè, dai: sicuramente uno di Muddy Waters per l’ascolto mattutino. Poi un disco di Richard Thompson, che è probabilmente il mio chitarrista preferito di sempre. Infine, potrei portarmi un disco di jazz, e qui farei una scelta singolare ma decisamente affettiva: Gato Barbieri, ‘Felix’ o ‘Bolivia’, perché fin da ragazzino mi aveva talmente stregato che cantavo a memoria tutti i suoi assoli di sax”.

L.B.: “Mi aspettavo un disco di Dylan, chissà perché”.

P.B.: “No, ma c’è una ragione: se dico Dylan, allora li voglio tutti”

L.B.: “Che ci dici dell’ultimo suo disco?”

P.B.: “Dico che questo è uno che così, in completa souplesse, ti tira fuori un  ‘Rough And Rowdy Ways’, una roba che quasi non ci si crede. Avercene!”

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".