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STRUCTURE – “Mindscore”

Structure”, struttura. Questo l’alias scelto da Stefano Giovannardi per intestare il suo esordio solista, frutto di accantonamenti di brani incisi in forme più o meno finite e oggi pubblicati sotto la spinta della presa di coscienza del giro di boa del mezzo secolo di vita.
Biologo, ricercatore universitario, parte del progetto due che condivide con Luca Lezziero, collaboratore di vari artisti (lo conobbi personalmente lo scorso anno, a una presentazione del disco di Cesare Malfatti “Canzoni Perse”, che nasceva in analoghe circostanze e vedeva Stefano ad accompagnare la performance, ma sono svariate le sue partecipazioni a dischi altrui), Giovannardi fa confluire un retaggio di influenze variegate a comporre un mosaico che è in tutto e per tutto materia sua, mostrando la maturità di chi da anni persegue strade che si ritrovano al medesimo incrocio: un ibrido di elettronica e post rock che flirtano con il pop, a rendere l’ascolto piacevolmente fruibile anche ad orecchie meno attente, ma sostanziale per chi alla musica chiede qualcosa in più.
Preceduto di soli due giorni dal video di Flat, il brano introduttivo, l’album è interamente scritto, suonato, arrangiato e prodotto da Stefano, a conferma della natura intima, quasi “confessionale”, di composizioni che si rifanno al titolo, “Mindscore”, come se si trattasse di pensieri, ovvero frutti della mente (mind), messi direttamente su uno spartito (score).
Dominato in alcune parti (Outer, Queen Of The Neon Light) dalle tastiere e da una vocalità che si muove tra David Sylvian e Bryan Ferry, quando le chitarre si affacciano in maniera più evidente (Seven Days, The Middle) ci si ritrova a immaginare cosa sarebbe accaduto se i King Crimson di Discipline avessero incontrato i Tears For Fears meno piacioni, mentre in The Wise And The Fury sono i Talking Heads ad essersi ritrovati a suonare a un rave. Ma sono tutti paragoni di comodo, perché il disco esprime una cifra molto personale come ho espresso direttamente a Stefano durante la piacevole chiacchierata telefonica avuta un paio di giorni fa…

L’INTERVISTA:

D- Ciao Stefano, complimenti per il disco: sono contento di scambiare qualche parola con te perché lo trovo un lavoro in cui i riferimenti sono così personali che credo nessuno meglio di te possa spiegare da dove vengono queste canzoni.

SG- Grazie! Questo è il miglior complimento cui potessi aspirare: ho sempre cercato di mettere del mio nelle composizioni che accumulavo nel cassetto in attesa di sentire che fosse venuto il momento di farle uscire. Giunto a cinquant’anni ho ritenuto che il percorso fosse degno di essere rappresentato.

D- Curiosa la scelta di un moniker, a questo punto: come mai non pubblichi l’album a tuo nome?

SG- Nella vita “reale” sono uno scienziato: sono un biologo, lavoro in ambito universitario, ho ritenuto di distinguere i ruoli. Ma in realtà uno ha a che fare con l’altro: la “struttura” è il fondamento della vita, le molecole compongono una struttura, il DNA è una struttura, esattamente come la musica si compone di note che si aggregano a definire qualcosa che in origine non era ancora così armonioso e organico. Tengo molto a sottolineare questo aspetto, perché tutta la mia vita è stata determinata da queste scelte: quella professionale e quella artistica, che sono facce della stessa medaglia.

D- Puoi raccontarci un po’ del tuo percorso musicale? Cosa ha portato il ragazzo di ieri a diventare Structure?

SG- in primis, direi il punk rock: l’idea che si potesse suonare benché non se ne fosse così capaci è stata la scintilla. Dead Kennedys, Sex Pistols, cose così, mentre provavo a suonare con gli amici in cantina. Poi, però, cominciai a percepire che i Clash e i Talking Heads erano musicisti veri, gente che sapeva suonare, quindi rispolverai le lezioni di piano che avevo preso a tre/quattro anni. Eravamo già arrivati negli anni 80, la mia ispirazione a livello di composizione erano i Cure, Joy Division, Depeche Mode. Ma più di tutti mi avevano colpito i Japan: “Tin Drum” è l’album che mi ha segnato in profondità, David Sylvian non l’ho più mollato neanche dopo. Attorno al 1985 ho registrato la mia prima cassetta su un classico quattro piste. Ah: ascoltavo anche hard rock, heavy metal e prog.. Ecco, anche Peter Gabriel è stato molto importante, specie nel periodo post prog, da solista.

D- quindi il tuo strumento di elezione è il piano?

SG- Non saprei, sai? Ho preso lezioni da bambino, poi l’ho abbandonato fino all’adolescenza. A 16 anni, però, avevo lavorato tutta l’estate per potermi comprare un basso: ero completamente fissato con i Police. Fu l’epoca in cui conobbi Cesare (Malfatti, ndi) e cominciai a suonare il basso per lui. Poi cominciai a giocare coi primi sintetizzatori e drum machines: strumenti che finalmente venivano venduti a prezzi umanamente sostenibili. In tempi più recenti mi sono riavvicinato alla chitarra… mi piace confrontarmi con tutti gli strumenti, ma sono un autodidatta: cerco di trarre i suoni più adatti ad accompagnare i testi, più che a costruire linee melodiche. Anche questo ha a che fare col mio lavoro: la cura dei particolari, mettersi a studiare qualcosa di nuovo, imparare a gestire le varie fasi della produzione, il dover essere metodici. Tutto ciò a che fare col mio background da tecnico e scienziato.

D- Hai collaborato con due membri dei La Crus, Cesare Malfatti (album “Canzoni Perse”, 2019) e Alex Cremonesi (album “La Prosecuzione Della Poesia Con Altri Mezzi”, 2019), hai fatto un disco con Luca Lezzieri sotto l’egida due: cosa dobbiamo aspettarci dal futuro di Structure?

SG- Ah, a dire il vero non saprei, almeno per quanto riguarda Structure: progetti in cantiere ne ho, uno in particolare al quale sto lavorando da un po’ ma del quale parlerò a tempo debito. La cosa più imminente avrebbe dovuto essere quella che avevamo immaginato Luca e io: la sonorizzazione di alcuni film muti degli anni 20, purtroppo impedita dalla pandemia che ha bloccato tutta l’attività live che avevamo programmato.

D- Come stai vivendo questa situazione? Cosa pensi delle difficoltà che sta attraversando il mondo musicale e delle esibizioni in rete? Credi che siano patetiche o qualcosa che può far bene alla musica?

SG- Quello che stiamo attraversando è un periodo che lascerà il segno: i musicisti stanno patendo, non guadagnano, tutto l’indotto generato dalle esibizioni dal vivo è bloccato, una crisi simile non s’era mai vista. Ma l’urgenza espressiva di un artista lo porta ad esibirsi, se non può fare concerti cerca altre strade, quindi penso che quelle esibizioni siano frutto del desiderio di porgere la propria arte nella maniera più vicina a una classica performance dal vivo. Ma non so quanto possa contribuire a cambiare lo stato attuale della cultura, così bistrattata e dimenticata dalle istituzioni, anche grazie al progressivo allontanamento del pubblico: oggi contano gli “eventi”, le grandi produzioni, nessuno si cura di capire da sé quanto possa interessargli o meno un artista poco conosciuto. Ma confido in un’inversione di tendenza: la Storia insegna che la sua ciclicità deriva dal raggiungimento di punti talmente bassi da provocare una reazione. Io ci spero.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".