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Storia di Nick, che non volle essere Sisifo

Normalmente le persone che lavorano nel campo dello spettacolo, attori o musicisti che siano, dovrebbero essere persone piacevolmente abituate a mostrare, e a “mostrarsi”; piccoli animali da palcoscenico, dediti a drogarsi – più o meno pesantemente – di folla, applausi e notorietà.
Di loro infatti si trovano interviste, affermazioni e comparsate in trasmissioni televisive e radiofoniche: sono cioè persone che amano raccontarsi, più o meno quanto raccontare.
Ma in alcuni particolari ed eccezionali casi – “eccezionali” nel senso di ‘eccezione’ e contravvenzione alla regola, che ad ogni modo finisce poi quasi sempre per confermarla – dicevamo, in casi molto particolari, così non è.
E in questo caso l’eccezione è incarnata da un artista che ci ha lasciato tre soli ma stupendi album, quelli si davvero eccezionali; un uomo di poche parole nella vita, ma denso di segni, parole, sentimenti e significati nella sua musica. Così era Nicholas Rodney Drake, al secolo “Nick”, che il 25 Novembre del 1975 – all’età di soli 26 anni – decise di lasciare questo mondo a chi se lo voleva prendere, e a chi se lo poteva intestare. E così facendo, decise anche più o meno coscientemente di lasciarci anche un universo interiore costellato di “lune rosa” e “cieli del nord”, dotati di una fulgidità e pienezza tali, che solo uno sguardo melancolico come il suo poteva vivificare con le note.
Ad esempio, di “Pink Moon”, terzo e ultimo album di Nick, il tecnico del suono John Wood racconterà di come venne praticamente registrato dal vivo e in un’unica sessione notturna, senza altri strumentisti, esclusivamente da Nick Drake: Drake fa il suo ingresso agli studi verso mezzanotte, con lui ha soltanto l’amata chitarra acustica, quella Guild che si può comodamente osservare sulla copertina di “Bryter Layter“.
Poche parole, essenziali e utili alla registrazione: di più non dice. Si sistema, raccoglie le forze e un respiro profondo, e attacca in sequenza tutte le undici canzoni che faranno parte del disco. La seduta non dura che un paio d’ore: e l’album è praticamente tutto lì, si compone davanti agli occhi e alle orecchie del solo Wood, come un mosaico poetico in cui le note sono le tessere, e la chitarra un docile martelletto nelle mani affusolate di Nick.
Lo stesso Wood dirà successivamente che Drake “era determinato a farne un disco spoglio, nudo: voleva che assomigliasse a lui il più possibile. E credo che Pink Moon sia molto più simile a Nick di quanto non lo fossero i due album precedenti”. Ed in effetti a ben pensarci, in certi casi, non servono troppe elaborate parole per raccontare un uomo: possono bastare un paio di aneddoti, e l’ascolto integrale e viscerale della sua musica. Che – come in questo caso – descrive egregiamente e a sufficienza anche l’uomo in sé.
David Sandison, che nel 1972 lavorava quale press officer alla Island Record, ha raccontato in una intervista che risale alla metà degli anni 90 di come avvenne che Nick gli consegnò la copia del disco: “Lo vidi nella reception quando tornai dalla pausa pranzo. Stavo parlando con qualcuno e notai una persona seduta. Lo riconobbi subito, era Nick. Sotto il braccio aveva un disco. Gli chiesi «Vuoi una tazza di tè?» E lui rispose «Sì». «Vuoi salire?», gli chiesi. E lui rispose, «Sì». Andammo nel mio ufficio, che si trovava in fondo al pianerottolo. Era un pianerottolo che portava a un grande ufficio con un grande tavolo rotondo su cui lavoravano Chris e tutti gli altri e dove c’era un grosso impianto audio. Restò lì nel mio ufficio per circa mezz’ora. Passò mezz’ora e disse: «È meglio che io vada». Gli risposi «Ok, è stato un piacere vederti» e se ne andò”. Nick se ne andò via con l’unica copia del disco sotto il braccio, e Sandison racconta che mezzora dopo essersi salutati, venne chiamato dalla segretaria a cui era stata consegnata da Nick quell’unica copia: ne fece subito fare delle copie, per sicurezza. Il giorno dopo, quando arrivarono, ascoltò subito l’album con alcuni collaboratori: il master era appoggiato, sul tavolino vicino al piatto.
Sulla confezione si poteva leggere “Nick Drake, Pink Moon”, scritto di proprio pugno da Nick. Era un uomo di poche parole: parole che spesso – nella sua vita – pesavano più del dovuto, ma che quando le lasciava libere di farsi trasportare dalla musica si alleggerivano e nobilitavano, come elio nell’aria. Il disco non fu nemmeno lontanamente un successo: le critiche che piovvero sull’artista contribuirono a peggiorare quello stato depressivo che da tempo gli si accumulava nell’anima. Si ritirò – accantonata la sua musica e l’amata chitarra – nella vecchia casa dei genitori, e due anni dopo quella silenziosa apparizione alla Island Records, quella fredda mattina del 25 Novembre, venne ritrovato morto dalla madre: “Suicidio previa ingestione incongrua di amitriptilina”, recitava il rapporto del coroner. Tra gli ultimi oggetti ritrovati, anche una copia in francese de “Il mito di Sisifo”, saggio giovanile di Camus; di cui una delle tesi è che il senso, alla vita, lo dà molto più il tentare, di quanto invece non faccia il conseguire. Il mito infatti racconta che Sisifo – punito da Zeus perché aveva tentato di ingannare gli dei – fosse condannato a spingere un masso dalla base alla cima di un monte, e che tuttavia – ogni volta che raggiungeva la cima – il masso avrebbe dovuto rotolare nuovamente alla base del monte: e così per l’eternità.
Ci sono persone che riescono a spingere quel masso come Sisifo, per quanto enorme, per tutta una vita. E poi ce ne sono altre che invece decidono di lasciarsene travolgere, aggrappandosi malinconicamente ad una chitarra.

“When I was younger, younger than before
I never saw the truth hanging from the door
And now I’m older see it face to face
And now I’m older gotta get up clean the place.”

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".