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ROCK BOTTOM: Robert Wyatt

75 Anni di Coerenza, Creatività e Cuore.

“Se non altro essere paraplegico mi ha dato una mano con la musica, perché  il restare in ospedale mi ha lasciato libero di sognare e di attraversare davvero la musica con il pensiero”
Nell ottobre 1991 Robert Wyatt, che oggi compie 75 anni,  intervistato da Q rivela una parte del segreto dietro Rock Bottom il suo secondo album, uno dei capolavori indiscussi della musica di ogni tempo, un’opera inafferrabile, indefinibile, immortale.
Il seme che porterà alla maturazione di questo frutto dal sapore straordinario viene piantato nel periodo, alla fine del 1972, in cui Robert Wyatt risiede a Venezia con la sua nuova compagna Alfreda Benge detta Alfie assistente del regista Nicolas Roeg e buona amica di Julie Christie. L’occasione sono le riprese del thriller “Don’t’ look now” cui i tre lavorano. Con un sacco di tempo libero a sua disposizione Wyatt si diletta a mettere insieme idee ed atmosfere su una piccola tastiera “Rivera” regalatagli da Alfie.
L’ispirazione primaria  arriva dall’acqua onnipresente nella citta lagunare: “non tanto i piccoli canali ma quelli ampi e aperti. E la sensazione, durante il soggiorno, che uscendo dopo pochi passi avresti incontrato l’acqua invece di una strada. Venezia d’inverno, quando la marea scende ci sono tutti questi piccoli granchi che si muovono tra il muschio e il fango. E’ molto evocativo”.
Il ritorno a Londra vede Robert impostare una nuova lineup per i suoi Matching Mole con Francis Monkman, Bill McCormick e Gary Windo. L’intento è di registrare un terzo album per produrre il quale intende rivolgersi all’amico Nick Mason il batterista dei Pink Floyd. Quest’ultimo il  2 giugno 1973 non fa quasi in tempo a ricevere l’invito scritto da Wyatt che lo raggiunge immediatamente dopo la notizia che lo stesso e precipitato dal quarto piano di una villa la sera prima in preda ad un delirio alcolico durante una festa.
La sentenza medica e’ di quelle impietose: danni irreparabili alla spina dorsale che lo costringeranno  sulla sedia a rotelle per tutto il resto dei suoi giorni .
Il lungo periodo di convalescenza trascorso in ospedale gli permette di ripensare a se stesso come musicista accettando il proprio handicap e facendone il perno intorno al quale, conscio di non poter tornare mai più a suonare il suo strumento d’elezione, la batteria, ricostruisce il suo rapporto con la musica dedicandosi ad un nuovo modo di comporre.  Impiegando un pianoforte presente nell’ospedale lascia germogliare le idee seminate a Venezia: “davvero sentivo il bisogno di suonare note. Ho sempre cantato canzoni, cosi non essendo più in grado di suonare la batteria, di essere in un gruppo….beh,  questo mi ha assolutamente liberato. Potevo fare solo quello ormai, ed è ciò che ho fatto da allora in poi”.
E’ ovvio, persino banale, affermare che l’incidente divide la vita di Robert in due tronconi, in un prima ed un dopo.  Quello che non sarebbe stato mai prevedibile prima di quell’evento e’  la fioritura di un artista che, senza nulla togliere a quanto fatto dai Soft Machine e dai Matching Mole, da quel momento fa dei suoi limiti il trampolino di lancio per l’espressione di un talento iridescente, profondo come l’oceano, sottile come cristallo, caldo come una mano innamorata.
“Rock Bottom” è  il primo fiore di questa pianta, un fiore che sboccia inatteso e che per molti resta in assoluto il più  incantevole della serie nella sua capacita di donare emozioni incomparabili a chi si misura con la sua semplice ma ricca paletta sonora splendidamente rappresentata dalle due copertine alternative disegnate dall’amata Alfie, sposata in concomitanza alla pubblicazione, per rivestirlo.
“Sea Song” è “il brano” per eccellenza di Robert Wyatt. Il più citato, il più postato, il più amato. E’ un brano pervaso da un senso di pacifico ed ineffabile mistero, un gioiello di composizione libera, unica, non definibile, irripetibile nel suo perfetto equilibrio tra inquietudine e serenità.
Il testo è un ode alla amata Alfie in chiave marina. I versi citano le stesse figure presenti sulla copertina dell’album in una esplorazione acquatica in cui la profondità e la libertà dell’amore e quella del mare si incontrano in un matrimonio di puro incanto che raggiunge il sublime negli ultimi tre minuti di vocalizzi liberi in cui davvero Wyatt è in grado di far toccare momenti di pura estasi a chi ascolta.
“A Last Straw” resta ferma sul tema acquatico sia in termini lirici che sonori galleggiando su una traccia di batteria libera di fluttuare intorno ad una onda sonora creata da Wyatt sull’organo Riviera, intorno alla quale galleggiano il pianoforte, il basso di Hugh Hopper, una chitarra che pare sciogliersi nell’acqua e la voce meravigliosa di Robert.
Il passo muta repentinamente con la successiva “Little Red Riding Hood hit the road” che prende a correre su una base percussiva ostinata che funge da rotaia dove s  la tromba free jazz di Mongezi Feza e la voce possono correre libere, talmente libere che da un certo punto in poi la linea di canto suona al contrario evidentemente riversata sul master rovesciata. I momenti con Feza peraltro sono ricordati da Wyatt come uno degli highlight assoluti della sua carriera. Un omaggio è dovuto anche allo stupefacente drive del basso di Richard Sinclair in coda al brano.
La nenia senza tempo di “Alifib” appoggiata sul respiro ritmico insistito di Robert introduce il secondo lato aprendosi all’incanto quando il basso di Hugh Hopper prende il largo sinuoso come un corso d’acqua. Tutto cambia a metà del brano, quando la voce inizia un canto quasi mesto su un testo di puro nonsense in cui emerge tuttavia un richiamo ad Alfie, “Alife my larder”   come a dire: “Sei la mia credenza” una dedica davvero  sui generis che scivola direttamente in “Alife” dove lo scioglilingua recitato a mo’ di automa da Robert sul folle sax di Gary Windo appoggiato ad una inquietante sequenza armonica  trova risposta dalla stessa Alfie che prende il microfono in conclusione al brano, quasi irritata dalle parole del marito: “non sono la tua credenza, non sono la tua cena, vecchia gelatina slabbrata”.
E siamo all’atto conclusivo, il passo si fa solenne, la voce si erge sulla sezione ritmica di Richard Sinclair e Laurie Allan lasciando spazio all’impressionante ingresso della chitarra di Mike Oldfield che pare uscita pari pari da “Tubular Bells”,  il suo album d’esordio,  in un enfasi lirica pronta ad introdurre il ritorno del cantato in una forma ossessiva, quasi un mantra, che va a sciogliersi progressivamente, in uno con il suono della band,  nella solitaria voce dalla viola di Fred Frith che resta sospesa in un drone pronto ad accogliere la voce dell’eccentrico poeta scozzese Ivor Cutler la cui affettata pronuncia recita un testo ancora una volta di puro nonsense. Una conclusione davvero sorprendente, totalmente inattesa per un disco meraviglioso che viene accolto sorprendentemente bene sia dalla critica che dal pubblico riuscendo ad ottenere un riscontro di vendite inatteso.
Negli anni la stima e l’amore per questo album continueranno a crescere progressivamente, sia da parte degli addetti ai lavori che lo inseriranno stabilmente  tra i capolavori assoluti del novecento sia da parte di chi ama la musica libera, quella che non ha bisogno di etichette o definizioni , quella che tocca le corde più profonde dell’animo umano, quella che risuona fresca come acqua di fonte ogni volta che giunge all’orecchio pura come è stata pensata e creata da un uomo che ha saputo risorgere dalla propria tragedia come una fenice piena di grazia.

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".