Live Reports

Un Tamino da favola, e le sue mille e una nota

La musica spesso è necessità. Causale e, contemporaneamente, consequenziale. Ma in rarissime occasioni – distinte ed esclusive – tocca invisibili ma reali corde interne, come se il nostro corpo fosse una chitarra vivente, e quella particolare musica un plettro, vivo e danzante. Un plettro che si è scelto appena lo si è visto, allo stesso tempo e maniera in cui ci ha cercati e scelti.
Poco più di un anno fa mi è capitato di incontrarne uno, di plettri fatti così: casualmente, io credevo. Ma invece no, perché certa musica non ci incrocia mai per caso. L’incontrarla, anzi, è “accidente” alla stessa maniera in cui Aristotele intendeva quelle qualità non sostanziali, aggiunte, ma aderenti comunque alle cose. E una volta incrociata, ed esaurita la peculiarità di quell’accidente, la musica in sé ti rimane attaccata, aderente come la pelle di due amanti quando si vogliono amare.tamino
La musica di Tamino è questo per me. Necessità causale, determinata da un accidente. E come in tutte fiabe, in cui analogamente la storia ad un certo punto – si fa necessaria e consequenziale, a causa di un evento apparentemente accidentale, anche qui il finale lieto è il medesimo, ma fatto della stessa sostanza melodica e fluida delle sue melodie dal sapor di mille e una notte.
Si presenta in solo Tamino Moharam Fouad – artista di origini egiziane e dal passaporto belga – sul palco del Santeria di Milano; una serata sold-out, in un locale zeppo per lo più di giovani adulti, stretti in un miscuglio multietnico e multicolore fatto di decine di idiomi differenti come se fossero un grande e bellissimo abbraccio, uniti dal comun denominatore della passione per la melancolia dei suoi testi e per il gusto polifonico della sua melodia a tratti arabeggiante.
Introdotto dalla voce suadente e vellutata della cantautrice Marianne Mirage – nome d’arte di Giovanna Gardelli – il cui set ha il non trascurabile pregio di introdurre senza cesure emozionali l’atmosfera lirica della serata, Tamino entra chitarra alla mano e quasi senza accennare un saluto verso un pubblico già concentrato ed attento.
FIn dalle note arpeggiate di “Persephone” (Yes my love, I confess to you \ I am only here to break your heart in two \ The very flower you chose that day \ Its only task was to decay) si intuisce che la gentilezza dei gesti e quell’accento iniziale di non celata timidezza, sono solo un momentaneo retaggio del Tamino “giovane ragazzo” ventitreenne: che però, chitarra sotto braccio e corde tra le dita, fa subito capire che il “duro lavoro” – di cui spesso parla fieramente nelle sue interviste – è fatto di tempo e tenacia ben investite. Riempie la sala con le sue note, e le seicento anime là presenti con il vibrato della sua voce, per certi versi molto simile a quella di un altro giovane ragazzo che, una ventina di anni fa, impressionava il mondo intero con il suo “Grace”.
Ma se il paragone in questione – invero già più volte sottolineato da parecchi critici musicali – è lungi dal non aver fondamento (anche se un po’ azzardato, almeno per il momento), pare in certe canzoni, e in brevi isolate intonazioni, di riascoltare il medesimo timbro di Gaëtan Roussel, voce e anima dei Louise Attaque. Tutti paralleli che impreziosiscono un artista che, nonostante la giovane età, riesce ad ammaliare il pubblico con testi malinconici e mai banali, e atmosfere a tratti struggenti ma non fini a sé stesse. Così, tra le liriche dal tratto poetico di una “Sun may shine” ( Troubled by a sound \ Vile and yet devout \ In your eyes, in your eyes \ There lies no caress \ They could not shine less) , e gli acuti modulati e rivestiti al velluto di una “Indigo night” che, nella sua produzione, ha avuto la collaborazione di Colin Greenwood dei Radiohead, pare di vedere un percorso, una epifania dalla quale tutti, prima o poi, si riesce a passare, se ben accompagnati da un po’ di fortuna e una buona dose di tenacia. “Now something happened there \ The smell of the grass, or maybe the air \ There was no more despair \ Just something about that night \ Maybe the girls, they lit some light \ And made everything right \ ‘Cause he’s never been \ More alive”; e in effetti, risulta impossibile non sentirsi più vivi di così, in una sera di acustiche melodie in cui nulla pare lasciato al caso.tamino
E quella che potrebbe sembrare un colpo alla propria malinconia, diventa un’arma a vantaggio della propria anima. Perché, per dirla con le parole dello stesso artista, “esternare tristezza e malinconia non è un male […] se uno scrive canzoni malinconiche non è necessariamente una persona tormentata, anzi, al contrario, perché vuol dire che affronta le sue angosce guardandole dritte negli occhi, e poi riprende a vivere la sua vita in maniera più consapevole.”. Consapevole lui, e noi, nel sapere che il set principale del concerto si chiude con “Habibi”, canzone che parla di un amore morto forse sul nascere (Something died within a soul \ Left the eyes to rust \ And every time it is recalled \ It covers all in dust), perché in effetti – similmente a quanto cantava Lorenzo il Magnifico parlando della giovinezza – “light is burning \ As I am burning”.
Dopotutto, a ventitre anni si può anche credere che l’amore prima o poi ritorni, e che in effetti sia un po’ archetipo o feticcio, esistente in tutte le cose, laddove e se esiste in sé stessi.
Giusto il tempo di sorridere anche di questo, e ballare un po’ su “Smile” (Sometimes I feel you \ taking me there \ with a smile), che è già tempo di saluti, e di promesse: “tornerò presto, con nuova musica”.
Promessa migliore non ce n’è, di sicuro.
E la fiaba si chiude così, con un inchino, e un bacio verso il pubblico.

 

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".