Prince: “1999 (Super Deluxe Edition)”
“È la cosa più eccitante che ho sentito quest’anno” (Miles Davis riferito a “1999”).
“Don’t worry, i won’t hurt you…i only want you to have some fun.”
È con una voce modificata, demoniaca, che inizia “1999”. È con queste parole che Prince entra nell’Olimpo. Primo di sei album ufficiali consecutivi tutti inamovibili pietre miliari. Da “1999” a “Lovesexy”. Dal 1982 al 1988.
Non è un caso che Prince inizi questa sua rivoluzione chiedendo all’ascoltatore di non avere paura: vuole solo farci divertire.
Era un tipo da far paura Prince. In molti l’avevano, vedendo questo figlio del demonio inneggiare a sesso orale e incesto nel suo “Dirty Mind” di due anni prima. Nel 1980. In America.
Super-iper-polistrumentista capace di suonare praticamente ogni strumento la mente umana abbia potuto anche solo concepire, talmente tanto da essere solo in sala di registrazione sin dal primo album. Se Michael Jackson era la luce lui era il buio. Se il primo era il conformismo lui era l’anticonformismo. Se l’autore di “Thriller” era la faccia perbenista dell’America degli anni ‘80 l’altro era il suo lato perverso, cattivo e per questo profondamente accattivante, intensamente affascinante. Era indigesto a molti il Principe; in pochi, perlomeno pubblicamente, a viso aperto, potevano sopportare questo efebico folletto, alto neanche 160 cm, amante eccezionale (innumerevoli le donne meravigliose cadute ai suoi piedi) che si presentava truccato, con auto-reggenti e tacchi alti sul palco. Gender fluid ante-litteram.
Ci provarono i Rolling Stones nel 1981 a far cambiare idea al loro pubblico, chiedendo proprio a lui di aprire i loro concerti. Ma era troppo da digerire per i macho-rock fan della band. Furono sufficienti un paio di canzoni perché iniziassero a volare oggetti sul palco e il clima diventasse irrespirabile. Basterà questo, nonostante le dichiarazioni d’affetto di Mick Jagger, a convincere Prince a non aprire più per nessun’altra band. Concluse il tour di “Controversy” e si rintanò in studio per comporre “1999”, ambientato in un futuro distopico, subito prima della fine del mondo.
La fine del mondo non arrivò, né nel 1982, né nel 1999; l’album stesso è la fine del mondo.
Faceva quello che voleva Prince. Ed è così che ha composto un doppio album di 11 brani, di cui 7 sopra i 6 minuti. Dalla danzereccia title track, alla ballad “Little Red Corvette”, a “Delirious”, che sembra una canzone di Elvis Presley passata attraverso una macchina del tempo che l’ha trasportata in una discoteca anni ‘80, alle sperimentazioni funk- elettroniche nude e pure di “Let’s pretend we’re married”, “D.M.S.R.”, “Automatic” (che sfoggia anche rumori di trapani in azione, tanto per non farci mancare nulla), “Something in the water”, “Lady Cab Driver” sino ad arrivare al pezzo più sofisticato realizzato sino a quel momento dal folletto di Minneapolis ovvero “All the Critics love U in New York”, meta-poietica allo stato puro. Nell’album c’è però lo spazio per emozionarsi ancora con l’inno alla libertà di “Free” e con la splendida e struggente “International Lover” che chiude una tracklist mai così ispirata sino ad allora per Prince. Il cosiddetto “Minneapolis Sound” era nato. Non si sarebbe più tornati indietro. Il mondo musicale aveva un nuovo stabile estroso punto di riferimento, una brillante ed alternativa stella polare.
Questa “Super Deluxe Edition”, composta di un totale di 65 brani e 5 ore e 53 minuti di durata, dà libero sfogo alla pubblicazione dello sconfinato materiale, inedito e non, sepolto e racchiuso in cassaforte nella mitologica residenza di Paisley Park, regno assoluto del genio. In questo caso ci vengono proposte versioni editate, versioni alternative, versioni mono, versioni stereo, versioni video, inediti, quasi inediti datati in quel periodo storico, versioni live demo, versioni live al Masonic Hall di Detroit…insomma di tutto e di più…materiale sicuramente interessante per i fan accaniti, ma altrettanto sicuramente troppo tracotante per gli altri esseri umani. Ulteriore conferma, come se ce ne fosse ancora bisogno, della sterminata creatività del vero erede di James Brown, forse l’ultimo grande testimone di un certo funk-approach alla musica che dopo di lui ha visto solo sbiaditi emuli e nessun vero erede, nessun vero eroe.