L’autobiografia di un artista sincero. BEST OF BILLY BRAGG AT THE BBC 1983 – 2019
Si parla spesso e a più riprese – a pieno o vuoto titolo, poco importa – di sincerità dell’artista legata alla sua arte o, per dirla come quelli che ritengono l’attività d’arte alla stregua di qualsiasi altro lavoro, alla sua ‘produzione’.
Per quanto riguarda la categoria della sincerità, nelle arti figurative, Salvador Dalì sosteneva che potesse risiedere in assoluto solo nel ‘disegno’, poiché in quella forma “non ci sono possibilità di imbrogliare. O è bello o è brutto.”, relegando però in tal modo quella che è invece una categoria dello spirito ad una mera caratteristica di una particolare forma d’arte.
E’ invece pensiero di gran parte della critica musicale moderna – e in questo, se pur con qualche sfumatura, non faccio eccezione nemmeno io – credere che un artista (band o solista che sia) non possa prescindere da quella categoria, perché considerata come una sorta di veste espressiva, essenza commistiva di forma e sostanza da cui nessuno di loro dovrebbe eccettuare. Quella è la base di partenza per giudicare l’opera di un cantante, che sia questa un brano, un album, o un compendio musicale esemplare e consuntivo della sua opera omnia. Insomma, per farla breve, la sincerità formale e sostanziale deve essere la base di ogni musicista: e su questo il rock non può fare eccezione.
E’ con questo presupposto ben fisso in mente che, in queste ultime quarantotto ore, mi sono lanciato in un esclusivo ascolto fortunato (ma non per questo fortuito) del nuovo lavoro di Billy Bragg “Best of Billy Bragg At The BBC 1983 – 2019”; Billy, un artista che – volente o nolente – ha durante la sua carriera più volte scosso il suo pubblico e la critica musicale, creando un piccolo dibattito attorno a quella stessa ‘sincerità’ a cui abbiamo inizialmente accennato.
Perché Stephen William Bragg – nato circa 62 anni fa nella contea inglese dell’Essex – ha navigato (durante tutta la sua carriera) nei marosi del rock, avendo sviluppato in adolescenza una certa sensibilità per il punk rock dei Clash, di gruppi come i The Jam, ma attraverso il filtro opacizzante del blues e la lente grandangolare del volontario retaggio folk di Woody Guthrie (il menestrello dalla vita disperata da cui sbocciarono poi anche artisti del calibro di Bob Dylan, tanto per intenderci, e che parecchia influenza ebbe anche in un rockettaro della prima ora quale è Bruce Springsteen). Perché, in quella sua propensione alle sonorità punk rock così ben sciorinate all’inizio della sua carriera – frutto di un ‘dono’ obbligato e appiccicoso di quegli anni ‘80 in cui Billy crebbe rimanendone poi a torto incasellato – e poi anche nel lento ma costante passaggio ad un rock meno ritmicamente rapido e più ragionato, più commisto di un crossover di elettrico e ‘unplugged’, la sincerità e l’aderenza ai propri gusti e, soprattutto, al proprio retroterra culturale etico e sociale, non è mai venuto a mancare.
E in questo suo rimanere attaccato alla società in cui è cresciuto – quella media borghesia che si stava emancipando da un proletariato ancora ben presente nelle memorie, nel sangue, nelle ossa delle generazioni post belliche – c’è tutta la genuinità di un percorso musicale che illumina tutti e 38 i brani live che compongono la raccolta.
Si parte dalla primissima sua apparizione alle “Peel Session” del 1983, due sessioni quasi consecutive in cui un ancora giovanissimo Billy si produce in sgranatissime versioni soliste – chitarra e voce, dove pare quasi (nonostante il lavoro di rimasterizzazione) di sentire quei bellissimi silenziosi fruscii radiofonici che dovevano essere l’unico ulteriore accompagnamento musicale alla musica dell’artista – di brani tratti dal suo primissimo album “Life’s a Riot with spy vs Spy” (album che di certo citava e strizzava musicalmente l’occhio ai Clash e alla loro ‘White Riot’), e del successivo e ben più grande successo musicale “Brewing up With”, dove all’attivismo politico dell’uomo fa da contraltare la lenta ma costante crescita musicale dell’artista. L’album raccolta, man mano che si procede nell’ascolto, acquista praticamente un significato e un sapore che nulla hanno delle raccolte in senso stretto (che di solito non approvo) , ma che hanno piuttosto il bouquet corposo e affinato di un’autobiografia raccontata in musica: le saltuarie apparizioni radiofoniche presso altre trasmissioni (di cui troviamo nell’album una a mio parere bellissima versione di “The Saturday boy” nella trasmissione di David Jensen, e successivamente una altrettanto sfrenata apparizione al Saturday Night con “A13, Trunk Road To The Sea”) sono doverosamente sommerse dalle sue apparizioni al “John Peel”, ormai diventate (fino alla scomparsa di John Peel) consuete.
E’ chiaramente un “Work in progress”, così come Peel pensava alle sue sessioni serali. E così Bragg ha voluto che si presentasse questo lavoro: un segnale “per mettere insieme le mie idee, per definire materiale che fino a quel momento era stato poco più che delle parole scarabocchiate su una pagina o una melodia suonata durante un soundcheck” una occasione per cercare “la mia strada dentro di loro, le canzoni”. Sapere che alcune delle canzoni che si trovano in questo “Best of…” fossero state addirittura scritte “da zero mentre lo spettacolo era in onda”, spinge l’ascoltatore a vedere quel volto sincero di un uomo onesto, vero. Cantautore ‘politico’ solo perché la vita a volte lo è, ma sempre a metà tra la visione concreta del proprio sguardo esteriore, e l’esplorazione schietta e poco mediata del proprio vissuto interiore.
E in questo sguardo a volte veemente, a volte romantico e introspettivo, ci si perde quasi tra i suoni di un viaggio musicale lungo pressoché quanto una intera vita. Una vita spesa tra gli altri, e per sé stesso: e non a caso l’album quasi si chiude con una versione acustica, intima, calorosamente e melanconicamente sincera di “I Ain’t got no home”:
“ Now as I look around, it’s mighty plain to see
This world is such a strange and funny place to be
Where the gambling man is rich while the working man is poor
I ain’t got no home in this world anymore
No I ain’t got no home in this world anymore”
Il capitolo finale di una autobiografia sincera.