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I 50 anni di Elliott Smith – Because.

Il 6 agosto Elliott Smith avrebbe compiuto 50 anni, avevo scritto questo articolo per il decennale della scomparsa e spero di fare cosa grata riproponendolo qui. Nel frattempo sono stati stampati in vinile tutti i suoi dischi e proprio in questi giorni sono state pubblicate le edizioni espanse di due suoi capolavori: Figure 8 e XO.

Gira su YouTube la registrazione integrale del concerto che Elliott Smith tenne all’Henry Fonda Theater di Los Angeles il 31 gennaio del 2003, nove mesi prima che dicesse addio a questo mondo. Non fatevi e non fategli del male, se mi date retta evitatelo, statene lontani, non guardatelo. Perché non è quello il modo giusto per ricordarlo: Elliott stava male, la voce era malferma e la diteggiatura sulla tastiera della chitarra incerta e zoppicante. Ad un certo punto dice di essere molto nervoso, di non ricordare le parole e si scusa con il pubblico, poi si riprende e le cose vanno un po’ meglio. Ma Elliott stava male e vederlo così mette addosso una tristezza infinita.

Cercate invece l’esibizione che tenne la serata degli Oscar del 1988, partite da lì. Elliott suonò Miss Misery, la canzone candidata alla statuetta e contenuta insieme ad altre sue composizioni fortemente volute dal regista Gus Van Sant per la colonna sonora del suo film “Will Hunting”, in italiano Genio Ribelle”. E’ l’anno del Titanic e Celine Dion vince a mani basse, ma Elliott è lì su quel palco, entra da destra e prende posto al centro, da solo. L’ abito bianco, la chitarra acustica a tracolla e la gamba destra portata un pochino più indietro della sinistra gli fanno assumere un’aria da timido, elegante e moderno troubadour. L’orchestra alle sue spalle arrangia il pezzo in maniera fin troppo barocca però lui canta perfettamente e alla fine del brano, mentre si defila dalla sinistra del palco, gli applausi scrosciano. Eccome se scrosciano. Elliott Smith dopo anni di underground col suo gruppo Heatmiser, ce l’ha fatta e il cielo è talmente vicino che potrebbe quasi toccarlo: i suoi dischi da solista cominciano a vendere di più e le major sono pronte ad accoglierlo a braccia aperte. Ma qualcosa non va, qualcosa in Elliott non funziona, la profonda timidezza e la tristezza che albergano in lui prendono il sopravvento, il suo doloroso passato riemerge sempre più spesso per nulla placato da un flusso costante di eroina e alcool.

Il duemilatredici che sta per lasciarci è stato anche l’anno del decimo anniversario della sua morte e dispiace che pochissimi si siano prodigati nel ricordarlo. Si rimane meravigliati che il suo nome non sia stato sfruttato all’inverosimile da un’industria musicale normalmente molto attenta in casi come questo: nessuna ristampa in formato deluxe dei suoi dischi più famosi ha visto la luce e a livello di tributi si sono fatti notare due lodevoli album che vedono coinvolti artisti italiani : Loves you more con dentro Dellera, Edda, i Dalailas e i Jennifer Gentle tra gli altri e forte anche di un documentario girato da Fabio Capalbo esce per la NiegaZowana; il secondo lo si trova in free download sulla webzine Shiver e s’intitola Everybody cares, everybody understands, che regala 8 cover eseguite, per citarne qualcuno, dai Lovecats, da King of The Opera e dai Sangue. Era però onestamente lecito attendersi qualcosa di succulento in ambito internazionale anche perché il numero di artisti che lo citano con riverenza e affetto è in costante crescita.

Chi sicuramente di Elliott non si è dimenticato sono i numerosi fan che continuano a rendergli omaggio a Echo Park, quelli che continuano a frequentare il sito ufficiale Sweetadeline.net tenuto con dedizione in costante aggiornamento, dai suoi amici musicisti e da coloro che hanno contribuito con articoli, memorie o semplici messaggi di affetto sulle riviste (più online che cartacee, a onor del vero) e sui social network.

Riascoltare le canzoni di Elliott Smith, soprattutto rileggerne alcuni dei testi strettamente legati a doppio filo con quanto poi successe provoca sentimenti piuttosto devastanti e il peggiore tra questi non è la tristezza ma l’impotenza di fronte a quanto accadde.

Anche se rimane il suicidio la principale ipotesi del decesso del cantante, è doveroso ricordare che alcuni aspetti non sono mai stati completamente chiariti, tanto da lasciare aperta l’ipotesi dell’omicidio. Anomala è la dinamica di come Elliott Smith pose fine alla sua vita: non una, ma due coltellate autoinflitte al cuore ne fanno un gesto infinitamente romantico, altrettanto atroce ma soprattutto atipico. L’arma fu estratta dal corpo dalla sua ragazza di allora prima dell’arrivo della polizia. Il 21 ottobre del 2003 Elliott Smith non faceva uso di eroina da più di un mese e i passi verso la completa disintossicazione erano quelli di un gigante, erano anni che non era così “pulito”.

I Primi Anni

Elliott Smith (il cui vero nome era Steven Paul) nasce il 6 agosto del 1969 a Omaha nel Nebraska, il padre è Gary Smith all’epoca uno studente universitario e la madre Bunny Kay Berryman, un’insegnante di pianoforte alle scuole elementari. Il divorzio tra i due è questione di pochi mesi e la madre si trasferisce a Duncanville in Texas con il patrigno Charlie Welch. Durante la giovinezza Elliott, anche perché molti parenti della madre erano musicisti non professionisti, impara a suonare il pianoforte e la chitarra. Ma nel 1983, all’età di quattordici anni, quando arriva a Portland in Oregon per andare a vivere col padre naturale che nel frattempo aveva intrapreso la professione di psichiatra, è perché è in fuga dal patrigno. Questa figura lo perseguiterà per tutta la vita tanto da portarlo a dichiarare di essere stato da lui abusato sessualmente più volte. In questo periodo comincia a comporre, a prendere confidenza con un registratore a quattro piste ed entra a far parte di alcuni piccoli gruppi musicali. Comincia anche a far uso di droghe e alcool ma questo non gli impedisce di diplomarsi vincendo anche una prestigiosa borsa di studio che gli permetterà di affrontare gli studi universitari. Si laureerà quasi controvoglia (“ho provato a me stesso che si può fare una cosa senza avere nessuna voglia per quattro anni consecutivi”, dichiarerà) in Filosofia e Scienze Politiche nel 1991.

Hetmiser

Nello stesso periodo svolge mille lavori differenti e fonda il gruppo Heatmiser col compagno di scuola Neil Gust, e con Tony Lash alla batteria e Brandt Peterson al basso cominciano a suonare nei locali della zona. Il suono della band è figlio di quei tempi, una miscela piuttosto fragorosa di Pearl Jam, Nirvana, Fugazi, Dinosaur Jr e R.E.M, non particolarmente originale e pochissimo rivelatore di quello che Elliott Smith proporrà durante la sua carriera da solista. Il gruppo arriverà a pubblicare due album e un EP su Frontier (Dead Air del 1993 e Cop & Speeder del 1994 come le cinque canzoni contenute in Yellow No. 5 ) che diventarono dei piccoli successi a livello locale. Il migliore della loro discografia, Mic City Son (1996) uscì su Caroline, una sussidiaria della Virgin, quando Elliott Smith aveva già pubblicato i primi due album da solista e il gruppo era sull’orlo dello scioglimento. Questo è un disco dalla qualità immensamente più elevata rispetto a quelli che lo hanno preceduto, è un album che lasciava intuire nuovi e interessanti sviluppi per la band, il suono grazie anche all’ingresso di Sam Coomes (al posto di Peterson) che aggiungeva colori inediti mediante slide e tastiere, poteva partire verso nuove direzioni; l’immediatezza pop, esibita senza remora alcuna nei futuri album solisti, appare qui per la prima volta in gran spolvero in canzoni come Half Right, See You Later, Plainclothes Man. Al punto che alla fine della storia quasi dispiace leggere nelle interviste successive che il cantante arrivò a dichiarare che far parte di quel gruppo lo fece sentire come un attore che stava recitando una parte e che l’unica soddisfazione che provò era di non dover più lavorare come muratore. Il contratto stipulato dalla band con la major fu rescisso quando Smith firmò quello da solista con la Dreamworks.

La carriera solista

Roman Candle – 1994

Nel 1993 inizia a buttare giù idee e a comporre le canzoni che faranno parte del suo disco d’esordio, Roman Candle pubblicato nel 1994 dalla Cavity Search. JJ Gonson, la sua ragazza di allora nonché manager degli Heatmiser, racconta che le canzoni furono composte interamente nella casa in Taylor Street dove andarono ad abitare; Elliott provava e riprovava continuamente e ogni tanto scendeva in cantina dove aveva posizionato un semplice registratore a 4 piste. La qualità del suono dipese molto dalla scarsa qualità di un vecchio microfono utilizzato per registrare le parti di chitarra: non avendo alcun pick up per l’acustica questo era posizionato direttamente davanti alla stessa. L’album inciso in quasi completa solitudine ha un suono spoglio e disadorno, alla semplice chitarra vengono aggiunte poche sovra-incisioni di chitarra elettrica, di un tamburo, un’armonica e poco altro, distantissimo da quanto espresso fino a quel momento col gruppo e con un approccio simile ai vari Will Oldham, Beck e Bill Callahan che in quel periodo stavano emergendo. Vengono alla luce influenze che negli album degli Heatmiser erano completamente nascoste, dalle partiture affiorano insospettabili influenze che vanno da Bob Dylan al country alle armonie di Simon & Garfunkel fino alla desolazione di Nick Drake (che dichiarerà di non conoscere e di averlo ascoltato solamente dopo che gli fecero notare la somiglianza). Gli episodi migliori di un programma che dura una mezz’oretta sono la title track, il fragile quadretto naif di No Name #3 (segnali di timidezza? I brani senza titolo sono 4 su 9) e quella Last Call che ad oggi rimane una delle dieci canzoni preferite di Slim Moon, fondatore della label Kill Rock Stars che pubblicherà i due album successivi, che la descrive come la canzone perfetta per l’equilibrio tra testo e melodia.

Elliott Smith – 1995

Il seguito di Roman Candle ha un approccio ancora piuttosto casalingo – è registrato a casa dell’amico Leslie Uppinghouse – però presenta una maggiore attenzione ai dettagli per via di una produzione più professionale e gode di una spinta promozionale più elevata.

A questo punto della carriera, oltre a girare in tour con gli Heatmiser, Elliott Smith appare anche in cartellone come solista.

La forza del disco risiede nel crudo realismo delle storie raccontate dove, in pieno contrasto con la sottile delicatezza della struttura dei brani, si muovono personaggi con enormi disfunzioni nelle relazioni personali e dei quali vengono descritte le crisi e i crolli dovuti all’abuso di sostanze. E’ forse il suo album più cupo e drammatico e anche se non mancano squarci di dolcezza come in Clementine, è qui che fa la comparsa la tristemente famosa The White Lady Loves You More che col suo testo preconizza gli anni bui che presto arriveranno:

“You wake up in the middle of the night – From a dream you won’t remember – Flashing on like a cop’s light -You say she’s waiting – And I know what for – The White Lady loves you more”.

Musicalmente oltre ai riferimenti del disco precedente, si affaccia l’amore per i Beatles: per adesso i modelli non sono né McCartney né Lennon ma, come si può facilmente riconoscere nella pregevole Coming Up Roses, George Harrison. Per via di alcune progressioni di accordi e alcune melodie che non hanno la stessa immediatezza di quelle dell’esordio, questo è un album un tantino più ostico e per apprezzare appieno le sue indubbie qualità servono alcuni ascolti in più.

Un bel disco ma Elliott volerà comunque a ben altre altezze.

Either / Or – 1997

Anche nel terzo album Smith suona da solo tutti gli strumenti e il lavoro, che si presenta come il più ambizioso del lotto, arriva in un momento di importanti transizioni nella vita del suo autore.

Prima dell’arrivo dei due dischi che usciranno per la Dreamworks, è questo l’album che rappresenta lo stato dell’arte dell’artigianato di Elliott Smith: tutte le influenze più o meno marcate riscontrate precedentemente nella sua scrittura arrivano finalmente alla piena fioritura. Ecco allora che i migliori esempi del pop e del folk-rock degli anni ’60, dai Beach Boys ai Byrds, passando per forza di cose agli amatissimi Beatles sono filtrati con una personalità tale da far inevitabilmente sbiadire i lavori precedenti. Da una produzione perfettamente bilanciata che traghetta il minimalismo indie dei precedenti lavori verso soluzioni più vicine alla grandeur dei futuri dischi su major traggono vantaggio alcuni dei brani più belli dell’intera carriera del Nostro. Ne sono esempio l’algida Alameda, brano di una raffinatezza esemplare, e la dolcissima Between The Bars.  E’ un lavoro di grande maturità, di quelli dove è impossibile scartare anche solo una canzone tanta è la qualità dei singoli episodi, disco che oltretutto allarga gli orizzonti stilistici dell’autore: tra la gentilezza di acquerelli come 2:45 A.M., Punch & Judy (irresistibile quel leggero eco sulla voce) e il John Lennon di Pictures Of Me non faticano a farsi largo brani più marcatamente rock come Cupid’s Trick e Ballad of Big Nothing e il sapore vagamente weird-folk dell’ultimo tra i brani privi di titolo ovvero No Name No. 5. I testi si fanno meno descrittivi e lo stile diventa più impressionista e quello di Angeles, pur se appoggiato su un delicato quanto svelto fingerpicking con sotto un filo di organo, è un’impietosa analisi del sogno capitalistico della Città degli Angeli. Paradossalmente la canzone, insieme a Miss Misery e altre due, farà parte della colonna sonora del film Will Hunting, l’esordio hollywoodiano di Gus Van Sant.

Un disco di grande fascino, un autentico capolavoro. Come i due che seguiranno, d’altra parte.

XO – 1998

Complice il grande interesse suscitato dal brano Miss Misery, candidato all’Oscar come miglior canzone originale, il nome di Elliott Smith raggiunge ormai un considerevole livello di fama e riesce ad ottenere il contratto che lo legherà alla Dreamworks di Steven Spielberg. Nel frattempo, alla ricerca di ulteriori stimoli trasloca da Portland verso New York, gira in tournee gli Stati Uniti e per poco non riesce a diventare proprietario della Big Pink che fu teatro dei “Basements Tapes2 di Dylan e la Band.

Purtroppo è contemporaneo a questo periodo l’inizio del progressivo sgretolarsi della sua esistenza e il ricovero presso una clinica psichiatrica in Arizona avvenuto dopo un intenso periodo di sregolatezze ne è solo il primo passo.

Larry Waronker, Il direttore della Dreamworks fino al 2004 quando venne ceduta alla Universal, racconta dell’incontro che avvenne con l’artista e la sua manager Margaret Mittleman prima che iniziassero i lavori per il nuovo album, il primo per una grande etichetta:

“I primi 40 minuti di quella riunione furono veramente duri perché lui è così timido e non dice molto. Aveva un libro di orchestrazioni sotto il braccio e io lo indicai: “Che cosa hai lì?” Quella fu la domanda che aprì la conversazione e poi siamo stati una buona ora parlare di musica e degli artisti che ritenevo lo avessero influenzato. Lui disse che stava pensando di usare un’orchestra nel suo prossimo disco e attendeva da me una risposta. Così ho portato il discorso su Randy Newman e Van Dyke Parks e su quanto sia interessante aggiungere un’orchestra per andare oltre il semplice rock e penso di aver di fatto allontanato da lui alcune delle sue maggiori preoccupazioni. Menzionai gli artisti giusti, e si rilassò”.

E l’album esplode come un magnifico fuoco artificiale, il più bello che ci si poteva aspettare; a tutte le influenze accumulate fino a quel momento se ne aggiungono altre, come il power-pop e il pop orchestrale, e tutte insieme vengono proiettate come schegge nello spazio riempiendolo di colori bellissimi e abbacinanti. L’album fu registrato negli studi sul Sunset Boulevard, gli stessi che videro i Rolling Stones rifinire “Exile On Main Street” e dove i Led Zeppelin registrarono parte del secondo album e quasi tutto il quarto, con i produttori Rob Schnapf e Tom Rothrock. La tavolozza si riempie di nuovi strumenti e gli arrangiamenti, scritti da mano ormai sicura e consapevole delle proprie potenzialità, si fanno decisamente più ricchi e grandiosi pur senza mai eccedere in inutili barocchismi.

E’ un bellissimo pianoforte a sostenere Baby Britain (un sentito omaggio al pop-rock proveniente dalla Terra d’Albione) e a guidare lo stacco in Everybody Cares, Everybody Understand e nella Kinksiana Bled White si avvertono anche echi della Electric Light Orchestra. In Waltz #1, una delle sue più belle composizioni, i Beatles vanno per davvero a braccetto con Van Dyke Parks mentre la tenera Tomorrow Tomorrow ha dei cori che forse nemmeno il miglior Brian Wilson avrebbe arrangiato meglio. La continuità con il passato indie è garantita da brani come l’iniziale Sweet Adeline, che inizia con un canonico arpeggio di chitarra per poi aprirsi in mille colori e sfumature, e da Pitseleh davvero vicina all’intimità dei primi due album fino a quando un pianoforte non ne accentua la drammaticità dei toni. Riferimenti precisi ai Big Star arrivano con Amity dove le chitarre fanno davvero faville, mentre A Question Mark per via dei fiati vira verso toni più errebì. Il finale è affidato a I Don’t Understand, un brano dal sapore celestiale, concepito alla maniera del Lennon di Because.

Il bozzolo si è schiuso, e una bellissima farfalla si è librata nell’aria. Ma le sue ali purtroppo sono molto, molto fragili.

Kisses & Hugs, Baci & Abbracci, XO.

 Figure 8 – 2000

La foto per la copertina dell’ultimo album di Elliott Smith registrato in vita si deve al regista e fotografo losangeleno Autumn de Wilde (anche autore del video per Son of Sam) che alla ricerca di alcune idee si è ricordato di quel murale. Si trova a Los Angeles in uno spiazzo con davanti un McDonald’s e se prima era un’opera conosciuta come “The Sound Solution” ora è per tutti il murale di Figure 8, suo malgrado diventato una sorta di Pere Lachaise dell’indie rock, meta di pellegrinaggio dei fan che negli anni lo hanno riempito con scritte d’affetto, disegni e dediche struggenti.

Parte del disco è registrato negli studi di Abbey Road a Londra e per Elliott Smith è la realizzazione del sogno della sua vita, arrivando addirittura ad utilizzare lo stesso pianoforte che si sente in “Penny Lane” e “Fool On The Hill”. Si legge da più parti che questo album rappresenta un passo indietro rispetto al precedente XO per via di eccessive dosi di barocchismo negli arrangiamenti; in realtà queste canzoni rappresentano la naturale estensione del disco precedente e molte, come quelle contenute in quell’album, sono di una bellezza stordente. Inviterei coloro che ancora non conosco la carriera del musicista di cominciare ad apprezzarlo proprio da questo disco, avranno modo di imbattersi in alcune delle gemme più brillanti da lui pubblicate. Qui c’è del rock fatto di bellissime e scintillanti chitarre e gustosissimi stacchi e ripartenze (Son Of Sam, Wouldn’t Be Proud, L.A., Junk Bond Trader), nuovamente non mancano i Beatles, evocati con convinzione e rispetto in Pretty Mary Kay, e il Ray Davies in Stupidity Tries. Le novità sono il medley In The Lost And Found (Honky Beach) / The Roost dove un piano rotolante, un organo e un’orchestrazione piuttosto roboante ci portano da qualche parte tra Allen Toussaint, Randy Newman ed Elton John e i bozzetti acustici ed introspettivi tipici dell’arte Smithiana sono ben rappresentati da Everything Reminds Me Of Her, Easy Way Out e I Better Be Quiet Now.

Sono davvero sopra le righe solamente gli arrangiamenti di alcuni brani, Happiness / The Gondola Man, Can’t Make A Sound ne sono gli esempi, ma per il resto si rimane pienamente soddisfatti.

E’ invece perennemente insoddisfatto proprio l’autore, ormai vittima di un pessimismo cosmico tanto da lasciarsi andare ad affermazioni davvero spiazzanti riguardanti il suo futuro e la sintesi del suo malessere è tutta nel titolo di una delle canzoni più belle di Figure 8: Everything Means Nothing To Me.

 The End – 21/10/2003

Le cose prendono davvero una brutta piega quando Elliott Smith va a vivere a Los Angeles. All’inizio del secolo la sua salute mentale e fisica subisce un rapido peggioramento, il suo lato oscuro prende il sopravvento e arriva a spendere una cosa come 1500 dollari al giorno per farsi di crack ed eroina. E’ diventato un’altra persona, la sua mente è popolata da fantasmi che non riesce più a scacciare, litiga coi vecchi amici, con la sua manager e abbandona anche la Dreamworks.

Tra mille difficoltà riesce comunque a tornare a registrare le canzoni che andranno a formare il prossimo album che nelle intenzioni voleva essere un doppio come lo erano stati l’Album Bianco ed Exile, i suoi costanti modelli di riferimento. A mettere ordine ai nastri ci pensano comunque le persone del vecchio entourage e quanto viene proposto è piuttosto soddisfacente. “From A Basement On The Hill” il disco postumo uscito nel 2004 ci tramanda solamente una parte delle canzoni già registrate e pronte per essere pubblicate. Si nota una certa volontà di sporcare di più il suono, di renderlo più caldo e valvolare, con la chiara volontà di tornare ad essere un artista indipendente quale si è sempre sentito. Molti brani che potevano far parte del progetto, alcuni davvero pregevoli come la dolcissima True Love, ad oggi continuano a rimanere inediti. Di canzoni belle ce ne sono parecchie, sul versante pop-rock Strung Out Again, Coast To Coast, Shooting Star, su quello acustico Let’s Get Lost, Memory Lane, Twilight e Fond Farewell, quest’ultima programmatica già dal titolo ma che è poca cosa rispetto alla linea di testo contenuta in King’s Crossing: “Give me one good reason not to do it!”.

Le buone ragioni non sono arrivate ed Elliott Smith e in quella mattina d’autunno mette in atto il disegno che aveva in mente da tempo di porre fine alla sua esistenza.

Nel 2007 esce New Moon, una selezione su doppio cd che contiene vari inediti, outtakes, versioni demo e alternate che avrebbero in molti casi impreziosito gli album per cui erano state registrate. Chi ha la pazienza di cercare in rete, troverà un corpus formato da un centinaio di canzoni inedite, alcune complete e ben registrate, altre lasciate a livello di bozza e diverse cover che Elliott Smith amava eseguire dal vivo.

Because, alla fine.

Sui titoli di coda del film di Sam Mendes American Beauty, potete ascoltare l’omaggio più grande che Elliott Smith potesse fare ai suoi amati Beatles. La Because che si sente, più che una cover è una ricostruzione quasi filologica del brano contenuto in Abbey Road, rifatta il più fedelmente possibile all’originale, quasi una sua clonazione, la ricostruzione dettagliata, frammento per frammento dei dettagli più minuti: ogni secondo dell’originale è ricreato alla perfezione, dal timbro delle voci e degli strumenti ogni cosa è perfetta, gli attacchi e i rilasci, perfino l’ambienza che caratterizzava la registrazione originale. Un po’ quanto fece Gus Van Sant (di nuovo lui!) nel remake che fece di Psycho, la ricostruzione al limite del maniacale del capolavoro di Hitchcock, tutto uguale, dalle scene, ai costumi, fino all’identica durata misurata al secondo. In questo c’è tutto l’Elliott che abbiamo conosciuto e amato: la sua grande timidezza, la sua immensa fragilità, il voler essere qualcun altro e mimetizzarsi tra la gente comune e lasciare che fossero altri a interpretare un ruolo che non gli competeva.

Perché il cielo è enorme e non dà la possibilità di nascondersi, ma soprattutto…

Because the world is round it turns me on
Because the world is round…

Because the wind is high it blows my mind
Because the wind is high…

Love is all, love is new
Love is all, love is you

 Because the sky is blue, it makes me cry
Because the sky is blue

 

Roberto Remondino

"Wishin' and hopin' and thinkin' and prayin' Plannin' and dreamin' each night of her charms That won't get you into her arms So if you're lookin' to find love you can share All you gotta do is hold her and kiss her and love her And show her that you care".