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Enrico Capuano. La musica è un diritto del popolo.


Enrico Capuano è un amico, una persona a cui è impossibile non voler bene, per la coerenza, l’entusiasmo ma più di tutto per la smisurata sincerità. A me piace come argomenta, come sceglie le parole e come in una chiacchierata riesca ad attraversare il pentagramma e planare agevolmente su tematiche universali e sul destino di noi piccoli esseri umani.

Enrico è nato nel 1964, nel 1976 stava già dietro il microfono di una radio, il primo disco è del 1988 ma la vera svolta arriva cinque anni dopo con l’album Fai la cosa giusta. Come la Numero Uno per Zio Paperone, è il primo capitolo di un tesoro che ha preso il nome di Folk Rock.

“Io però rivendico con un certo orgoglio di averlo suonato nei concerti già da subito. Nel 1980 ho iniziato a suonare, da ragazzino a 16 anni, proprio perché folgorato da forse uno di primissimi brani di vero e proprio folk rock italiano, di tarantella italiana in chiave rock, che è quel bellissimo brano della PFM “È festa”, per me è il più grande esempio di folk rock italiano. Il pezzo è del 1972 e a quel tempo la  Premiata Forneria Marconi faceva progressive, quella però è una vera e propria tarantella e loro restano uno dei rarissimi gruppi italiani sbarcati con successo oltreoceano. Ci sono stati esempi negli anni ’70 di gruppi che facevano incursione nel jazz e nel folk, penso ad esempio al Canzoniere del Lazio con Piero Brega, un gruppo particolare che faceva dischi molto sperimentali. Io provavo in qualche modo a inserirmi dentro quel filone”.

Ma tu te lo ricordi il tuo primo disco? “Io ho una vera e propria vita parallela, i primi dischi erano Pop. Non li cito nemmeno nella discografia ufficiale perché ne ho un ricordo terribile, o meglio diciamo che nessuno ci aveva insegnato nulla e che siamo cresciuti facendo le cose. I percorsi prima erano più naïf, oggi i ragazzi sono molto più intelligenti. Hanno delle competenze tecnologiche, all’epoca se entravi in sala con un’idea ne uscivi con un’altra perché non riuscivi nemmeno a gestire bene e ti mettevi in mano a un produttore artistico. In piazza però io il Folk Rock lo faccio da sempre, ho iniziato con le tarantelle rock, dopo nei concerti facevo anche le mie canzoni pop. Poi nell’89/90 ho scritto un pezzo, Tamurriata, che ho poi registrato in Fai la cosa giusta nel 1993. In termini di incisioni direi che è stato il primo mattoncino verso questa idea che mi ha portato bene, perché ancora adesso suono e siamo nel 2023. Grazie a quello che era un esperimento in qualche misura controcorrente abbiamo resistito, sarà una cosa anche di nicchia però quella nicchia ha risposto e ha dato la linfa per potere andare avanti attraverso concerti, dischi e a questo punto posso dire di avere una carriera più lunga di quella dei Litfiba”.

Ivan Graziani sosteneva che il Rock fosse figlio del saltarello, che gli abruzzesi andati negli Stati Uniti avessero portato i propri ritmi tradizionali e contribuito alla nascita di nuove espressioni musicali. Tu in Nord America ci vai spesso, tra qualche settimane sarai in tournée in Canada, come è il tuo rapporto con quell’ambiente musicale? “Beh intanto diciamo che il Rock nasce grazie al Blues, grazie alle tradizioni che i neri hanno immesso nella cultura americana, che il papà di tutta la musica moderna è il Blues. Quando riesci a portare il Folk Rock italiano fuori dai confini nazionali, ancor più in quella che è la culla del Rock, è sempre una doppia gioia, soprattutto quando vedi che c’è un feedback emotivo. La nostra musica riceve ogni volta una buona risposta non solo attraverso le grandi comunità italiane che comunque non sono più quelle di una volta. Oggi ne fanno parte anche tanti giovani che sono andati via, direi quasi fuggiti, dal nostro paese, ci sono ragazzi che il Folk Rock hanno imparato a conoscerlo anche grazie ad altre band. Poi c’è la soddisfazione di suonare in certi templi del rock negli Stati Uniti e vedere che la Taranta Rock, e tutto quello che c’è intorno, in qualche maniera funziona. C’è tanto orgoglio ma c’è sempre anche tanto da imparare, perché poi all’estero con un pubblico che non è quello nostro se tu ne esci bene è sempre un elemento di crescita”.


Sono Paesi dove ancora si suona nei locali, cosa che in Italia si sta un po’ perdendo o mi sbaglio?
“In Italia in effetti c’è un problema enorme rispetto alla musica. Ed è un problema nostro, perché appena superi i confini nazionali, anche solo in Europa, c’è molta più musica live. Il problema vero è che in Italia c’è una sofferenza verso la musica. Se per fare un evento musicale, anche dal vivo anche in una piazza, devi entrare in un meccanismo burocratico che ti ci vuole la laurea e devi stare lì a girare 87mila uffici con delle tasse allucinanti dove il costo diventa impressionante…alla fine chi è che organizza un concerto? Non più le realtà alternative di una volta che potrebbero proporre musica che non sia per forza quella delle multinazionali, o quella imposta dalle televisioni e dai mass media, ma anche musiche altre. Possono permettersi di organizzare quasi soltanto i grandi potentati economici che sono garantiti e hanno la possibilità. Ma un gruppo di ragazzi di un quartiere che vuole organizzare una festa oggi non può più, è diventato impossibile. Fanno la guerra ai Rave ma se cerchi di fare una cosa legale questo percorso diventa un massacro imprescindibile. C’è poi una questione di cultura, fuori c’è una proposta musicale varia. Io vado in giro anche negli Stati Uniti e ascolto radio di tanti generi musicali, a loro è chiaro che ci sono, anche commercialmente parlando, dei pubblici”.

Il mercato musicale italiano è così diverso? “Se vai a vedere l’Italia non è un paese dove in questo momento storico ci sono tantissimi giovani, puntare solo sui giovani e non pensare che il mercato musicale potrebbe essere anche altro è già un errore dal punto di vista delle proposte in termini di produzione. Lo prova Guccini che pubblica Canzoni da Intorto solo sui supporti fisici ed entra nella top ten, lo trovo sia un esempio interessante anche dal punto di vista sociologico perché se è pur vero che qualsiasi cosa faccia Guccini ci sarà sempre uno zoccolo duro pronto a comprarla, il fatto che 15mila copie di vinile siano partite così di primo impatto e ad oggi ne abbia già vendute oltre 50mila non è poco. Pensare che non è nemmeno un disco di inediti ma è composto dalle canzoni della tradizione, quelle che la sua generazione cantava anche nelle tavolate, tra amici”.


Quelle tavolate che allargandosi, mi vien da dire, diventano festa di piazza, piazze con le quali tu e la Tamurriata Rock avete una capacità di creare connessioni molto forti. In qualche maniera avete contribuito a regalare loro nuova dignità artistica.

“Purtroppo però sembra che il mercato musicale si stia muovendo in tutt’altra direzione, quella di costruire dei grandi eventi: esclusivi e con dei prezzi irraggiungibili, rimandando poi il concerto in streaming, piuttosto che nei cinema. La musica è ormai appiattita dentro la logica del profitto, è appiattita soltanto nella logica della grande multinazionale, la musica è intesa come merce e basta non più come fattore artistico. Pensare che l’Italia è stata la culla di un movimento come il Progressive che ha rappresentato  e coinvolto circa cinquecento band, parliamo di gruppi come il Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, i New Trolls, la Premiata Forneria Marconi, gli Osanna. Un fatto italiano nato in qualche misura anche grazie al brodo di cultura che c’era nel Paese. Abbiamo tirato fuori una sperimentazione musicale incredibile che portava poi migliaia e migliaia di persone a partecipare ai concerti ma anche esperienze come quella di un certo tipo di cantautorato. A cavallo degli anni ’60, ’70 e ’80 c’è solo l’imbarazzo della scelta, prima abbiamo citato Guccini e Ivan Graziani ma come fai a dimenticare Tenco, De André, Endrigo o Bindi. Ne potremmo citare tantissimi, quella era vera e propria poesia in musica”.


Un po’ come se la musica facesse da specchio alla società, a quello che si vive in un determinato periodo storico?

“Ah guarda ponendo le cose in questa maniera mi vien da dire che oggi lo specchio della realtà è la non volontà. Per carità poi ci sono delle cose interessanti sia chiaro, ci sono un sacco di proposte carine anche nella musica di oggi, anche nelle cose più fresche. Per dire a me Salmo non dispiace, tanto per fare un esempio, anche se il mio è tutt’altro genere. Il problema che io pongo è una questione di carattere generale, è una questione di carattere culturale, per capire servirebbe uno scatto in avanti proprio da parte della politica. Manca la capacità, la professionalità, la tendenza a far crescere un humus culturale pluralista. È il concetto stesso di pluralismo ad essere in crisi, in tutto non solo nella musica. La diffusione della cultura musicale alla fine è molto legata anche all’andamento del mercato editoriale, non ci sono più testate (o se ci sono hanno una diffusione microscopica e si rivolgono a un pubblico decisamente adulto) come possono essere state per noi Il Mucchio Selvaggio o anche solo Ciao 2001. Pensa anche solo a quanta quanta poca attenzione mediatica stanno ricevendo Le Orme, impegnate a realizzare un disco e un tour con due terzi della formazione storica e gran parte dei musicisti che si sono alternati al loro fianco (da Tolo Marlon a Spitaleri) e stiamo parlando di uno dei più grandi gruppi che l’Italia abbia mai avuto. Quindi non stiamo parlando solo di un fatto giovanile perché la musica è totale. Torno a ripetere:  c’è una mancanza di sostegno economico da parte di chi dovrebbe darlo e le istituzioni non operano abbastanza dentro una visione di rilancio delle culture che ci sono”.

Per la musica popolare diventa veramente difficile però ai vostri concerti il pubblico non manca mai, come te lo spieghi?
“Guarda le nostre piazze, e non solo le nostre, sono piene anche di molti giovani nonostante non ci sia sufficiente rappresentanza nelle tivù nazionali. Pazienza la privata che alla fine fa quello che je pare, parlo di quella pubblica e lo dico senza grandi problemi perché poi bene o male io ho fatto 12 volte il Concerto del Primo Maggio. Ne ho persino presentati tre, non è che mi posso lamentare. I format attuali sono sempre più appiattiti sui social network, che per noi diventano un canale fondamentale sia chiaro ma ciò non toglie che mi chieda se questa logica uno come Fabrizio De André sarebbe comunque uscito fuori? Per tornare alla tua domanda noi utilizziamo molto i social e poi funziona sempre il caro vecchio passaparola ma su quelle piattaforme oggi c’è comunque un appiattimento. Se io vado su un social e dico tre volte gnagna gnagna gnagna magari faccio cinquemila visualizzazioni rispetto a uno che se fa un culo così e tira fuori una poesia. Bisognerebbe rivedere tutto il meccanismo”.

Vorrei tornare alla tua produzione discografica che trovo giusto venga conosciuta di più. Tra le tante canzoni ne hai scritto una che io amo molto, parlo di Fuori dalla Stanza in cui insieme al Piotta avete coniugare la musica popolare, una punta di pop e il Rap. Quindi direbbe il  Dottor Frederick von Frankenstein: si può fare?
“Beh Fuori dalla Stanza penso che sia un pezzo ancora attuale. Ripensando a quel testo che abbiamo scritto io e Tommaso Zanello ,in arte Piotta, posso dirti che avevamo la consapevolezza che il futuro del nostro Paese è un futuro multiculturale. Su questo bisogna che i governanti comincino a pensarci dentro le coordinate giuste, si tratta di organizzarla questa cosa in un paese dove in cinque anni 400mila giovani sono andati via, dove la natalità è sotto zero e tra qualche tempo non so quanti italiani come li intendiamo noi ci saranno. Di fronte a un meccanismo di questo tipo è chiaro che c’è il volto delle piazze italiane che cambiano e io, da romano, mi pongo sempre la domanda di chi è Roma?. Roma per quello che mi riguarda è di chi ci abita, poi possiamo ragionare sui problemi dell’emigrazione. Bisogna affrontarli in maniera molto seria senza cadere nei pietismi da quattro soldi ma dentro logiche programmatiche, questo però è un altro discorso e riguarda la politica. Rispetto a una canzone un artista fotografa l’aspetto di una città, delle nostre città, e Fuori dalla Stanza vuole significare anche l’uscire fuori da un certo provincialismo che sempre c’è stato. C’è stato anche quando i nostri giovani del meridione negli anni ’50 e ’60 andavano nelle grandi città come Torino, tanto per fare un esempio. Ce ne siamo dimenticati ma c’erano dei problemi tra i meridionali e i torinesi, problemi di integrazione, di mentalità. Nella canzone in effetti sì incrociano generi musicali, come avviene da sempre tra le popolazioni, e mostriamo bene come musica popolare, il folk e new folk possano tranquillamente interagire con le altre musiche. Questo in realtà è già accaduto quando la musica popolare tradizionale è uscita fuori dal mondo contadino, nel momento in cui i giovani contadini sono andati lavorare nelle fabbriche. Pensa ad artisti come Alfredo Bandelli o Ivan Della Mea che già negli anni ’60 cantano alla maniera contadina, con l’estetica contadina, con la respirazione dentro le parole. Amore amore amò…Amore mio, questa roba qui che non fa parte dell’estetica dello studio del canto e  da lì che arriva la canzone operaia. I contenuti diventavano quelli della classe operaia di quel periodo, la musica popolare è la lettura attraverso gli occhi del popolo dei fatti della storia. Se vuoi questa definizione si adatta anche all’evoluzione di un certo Rap, Chuck D dei Public Enemy lo definiva la CNN dei poveri. Quel tipo di Rap, quello che racconta la strada, lo considero un’altra forma interessante da questo punto di vista. Alla fine mescolare i generi è sempre un fatto simpatico, a volte ti esce bene, a volte ti può uscire male, nel nostro caso direi che è uscito abbastanza bene”.


Se ci pensi l’avvisaglia di tutto questo arriva da Torino, quando alla fine degli anni ’50 i Cantacronache incidono i primi dischi. Nonostante da un po’ di tempo riusciate a suonare molto poco da queste parti, il legame con la nostra città finisce sempre con venire fuori. D’altronde, senza voler deviare troppo dal discorso, siamo stati a un passo dal realizzare un programma radiofonico insieme sul nuovo protagonismo delle periferie. Doveva chiamarsi Nichelino-Centocelle, lo ricordi ancora?

“Come no! Molte periferie sono diventate una specie di nuovo centro perché poi molta effervescenza culturale arriva da lì. Devo dire che Nichelino, la tua città, è una città che ultimamente si sente molto e non solo per gli eventi culturali. Io credo che anche lì ci siano stati processi di trasformazione interessanti. Sono luoghi con dinamiche che si assomigliano e questo vale anche per Centocelle, il mio quartiere, che era un quartiere dell’area Nord all’estrema periferia di Roma e che oggi è diventato un centro dove c’è anche un vivaio di band, di situazioni musicali. Ricordo quando primi punk romani hanno cominciato a frequentarlo, si sono trovati in una zona dove nonostante la lunga tradizione politica di Sinistra erano visti malissimo. Gli abitanti li guardavano e dicevano questi chi cavolo sono. Uno dei primi concerti del genere, lo ricordo come fosse ieri, in una Festa de L’Unità lo avevo organizzato io e quando suonò il gruppo e i ragazzi cominciarono a pogare il servizio d’ordine entrò dentro il pogo pensando fosse una rissa. Non avevano mai visto nulla del genere in vita propria e io da ragazzino cercavo di bloccar tutti perché poteva finire a schifio, non capivano che quello spintonarsi era un ballo e dicevano Ma che cazzo stai a fa’. Poi è arrivata tanta buona musica, abbiamo qui dei gruppi come gli Assalti Frontali con Luchino (Militant A N.d.A) che sono tra i precursori del Rap italiano. Bisogna riconoscer loro il merito con Onda Rossa Posse di aver davvero inventato qualcosa che poi si è consolidato nel tempo. Spero che i ragazzi che oggi fanno questo genere, anche se sono cambiati e non è più quella Old School come la chiamano, continuino a dare rispetto e merito agli Assalti Frontali che oltretutto continuano a fare delle ottime cose. Loro sono stati fra i primi in quel genere di innovazione, come se vuoi è stata per noi innovativa la chitarra distorta in una tarantella”.

Che poi se prendi Mille Gruppi Avanzano o Courage, i loro due ultimi album, sono cose molto diverse dalle produzioni precedenti, c’è una evoluzione che l’antologia di tre anni fa fotografa benissimo.
“Se tu sei un musicista che prende da quello che vive nella realtà, tu sei sempre in continua evoluzione. Io sono convinto che se il tuo genere ti offre degli spazi di apertura, questo deve essere un momento di crescita anche personale. Vale per tutti, per gli Assalti e per me che sento di aver tanto da imparare da quello che sta succedendo adesso. Ci sono nuove forme di sonorità interessanti anche se è chiaro che per me la matrice rimarrà sempre la tarantella. È l’elemento base che vai ad arricchire di nuovi elementi. Per noi è addirittura un po’ un mantra ed è così che nei concerti facciamo spesso delle vere e proprie improvvisazioni”.

Se ci pensi, d’altra parte, anche Mozart prendeva i canti che sentiva in giro e li trasformava, forse tra il rap e i canti in ottava rima non è che ci passi chissà che cosa. Sei d’accordo?
“Bella questa cosa che dici, alla fine l’improvvisazione poetica in ottava rima è il nostro freestyle. Una tradizione che va avanti da centinaia di anni (era già il metro usato nei cantari trecenteschi N.d.A.) e in una parte del Paese è ancora viva e vegeta nelle provincie settentrionali del Lazio (ma non solo, ci sono manifestazioni in numerose località dell’Italia centrale così come in Sicilia o in Sardegna) si continua a improvvisare attraverso delle vere e proprie gare poetiche fin quasi a stremarsi. Sono veri e propri duelli vocali, non facili perché si deve improvvisare al momento e rispondere all’avversario. È fighissimo”.


Se sei d’accordo, mi piacerebbe tornare un attimo ad Enrico Capuano e alle cose un po’ più intime. Una delle pubblicazioni più recenti è il singolo Viva dove affronti la questione dei trapianti che tu hai vissuto, vivi, in prima persona. Lo hai fatto con una poesia, una delicatezza, straordinaria, restituendo comunque bene anche il senso e l’importanza del dono che restituisce la vita agli altri. In questo caso a tornare alla vita, nel 2016, sei stato proprio tu e io ricordo bene i messaggi che ci scambiavamo dall’ospedale.
“Sono quegli eventi che ti insegnano ad usare meglio il tempo. Poi c’è la gratitudine per la persona, tu hai un pezzo di un’altra persona dentro di te che ti dà la possibilità di vivere, che ti permette di fare un’intervista come questa, di continuare a suonare. Ti fa capire quanto è preziosa questa nostra vita e per questo non va gettata al vento, permettimi di dire che bisogna viverla non soltanto per l’edonismo personale ma anche dedicando del tempo agli altri e per le cose che sono importanti. Diciamo che l’Io è e resta molto importante, però in una società dove l’io è diventata l’unica fede e l’unico imperativo categorico imposto forse il Noi può diventare una risposta che ci arricchisce. Poi è chiaro che bisogna capire cosa ci mettiamo in quel Noi: impegnare la propria vita in alcuni contenuti sociali importanti secondo me vale la pena. La musica è gioia, la musica è evasione, la musica è ballo, però io rifiuto chi dice che nella musica non si possono veicolare anche dei messaggi. Chi dice che il cantante deve cantare, non deve dire certe cose, dice una cazzata che non finisce mai, perché a questo punto De André viene cancellato, Guccini viene cancellato, tre quarti dei cantautori vengono cancellati. Ognuno canta quello che vuole, però se la musica veicola valori positivi, poiché la musica è una forma di comunicazione, lo ritengo giusto e importante. Soprattutto in una fase storica come quella nostra, tra pandemie, guerre, disastro ecologico la musica deve essere portavoce di messaggi positivi che fotografano la realtà. Non può essere solo una semplice evasione perché qui a forza di evadere poi ci troviamo problemi in casa che diventano pesanti…ragazzi abbiamo la guerra in Europa, non è una cosa secondaria questa e oltretutto non ci rendiamo pienamente conto dei riflessi negativi che stanno avvenendo sul piano economico. Io ritengo che cantare veicolando messaggi sia importante e ritornando al cuore posso solo aggiungere di essere grato a questo angelo, questa donna che mi ha donato il cuore, però la forza che io ho avuto nel sopravvivere è quella della musica. Mi sono aggrappato all’idea che dovevo ritornare sul palco”.

Mi piace questa tua idea che la musica deve veicolare un messaggio.
“La musica è parte dell’umanità, l’uomo è un animale sociale e quindi cantare significa anche rivolgersi a un pubblico. Io questo lo tengo bene a mente, poi ognuno fa quello che vuole sia chiaro, anche cantare l’amore è importante perché ci sono tante visioni d’amore”.


Leggo che da metà maggio ricominci la tournée, insieme alla Tamurriata Rock tornerete anche in Nord America e ospiterete in qualche data un percussionista sopraffino come Tony Esposito.
“Abbiamo messo su uno spettacolo fantastico e ogni tanto ci portiamo dietro dei percussionisti incredibili, Tony Esposito che è un pezzo di storia quando è possibile ma anche ragazzi molto più giovani: Gioele, ad esempio, che suona nella notte della Taranta ed è un animale da palco. Cerchiamo di costruire anche qualche momento di vera e propria improvvisazione, una caratteristica che è ispirata agli anni ’70 e che ci aiuta a creare quel sound per cui ogni concerto diventa unico. Se uno viene a cinque concerti trova cinque spettacoli diversi, levando quei pezzi caposaldo che in parte abbiamo citato prima rimettiamo sempre tutto in gioco. La Tammurriata Rock ha elementi meravigliosi, con me c’è una rocker che non finisce mai e che ha anche un suo progetto personale, una persona straordinaria con il rock nel sangue come Dunia Molina. Se vi capita andate a sentirla anche nel suo progetto solista. Poi c’è un chitarrista fantastico, un velocista pazzesco che è molto stimato nell’ambiente: Giacomo Anselmi. Alla batteria c’è Daniele Iacono alla batteria che ha suonato con tantissimi artisti, da Ron a Jovanotti, e Roberto Lo Monaco al basso. Spesso suoniamo anche insieme a dei violinisti e di tanto in tanto incrociamo la strada con qualche collega”.

Come Baccini?
“Siamo amici da tanto tempo. Do norma io faccio il mio spettacolo e lui con il piano fa le sue bellissime canzoni, alla fine cantiamo insieme e facciamo un piccolo omaggio a Fabrizio De André. Lui ha conosciuto Fabrizio, io lo adoro e un po’ l’ho anche vissuto nei quasi due anni di tournée che ho fatto insieme a Franz Di Cioccio della PFM. Fa un genere completamente diverso dal mio ma a me piacciono questi connubi particolari”.

Quando ci portate questa bella festa quassù nel lontano Nord?
“Abbiamo scelto di lavorare con i rapporti umani, non abbiamo più un’agenzia, è la gente che ci vuole bene ad organizzare i concerti e questo ci permette di andare incontro anche alle realtà più piccole e speriamo così di tornare in maniera più massiccia anche nel Nord Italia. È una scelta che per ora sta pagando ma io vedo le difficoltà dei tanti ragazzi che vogliono fare musica perché i ragazzi di oggi veramente hanno difficoltà enormi, soprattutto per chi propone musiche originali e non cover ci sono meno spazi per suonare, ecco perché servono le istituzioni. Io punto sempre il dito rispetto a questa cosa, in ogni intervista, perché le istituzioni devono fare il proprio dovere e non è una tifoseria politica. Al di là della propria appartenenza bisogna lavorare per una cultura a disposizione del popolo, anzi guarda coniamo proprio uno slogan: la musica è un diritto del popolo, i concerti sono un diritto del popolo, sono un pezzo della cultura e dell’umanità. L’uomo non esiste senza la musica, non puoi togliere la musica agli esseri umani”.