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Una Notte Come Questa – The Cure – Padova.

Kioene Arena, Padova 3-11-2022 

Robert Smith è sopraffatto, l’ultimo accordo di “Boys Don’t Cry” è scemato da poco e quelle lacrime ricacciate indietro in quel 1978 che vide l’esordio dei Cure ricompaiono sugli occhi dell’uomo maturo di oggi. Si concede tutto il tempo del mondo per salutare il suo pubblico quasi volesse ringraziare tutti i presenti ad uno ad uno per i quarantacinque anni di amore ricevuto. Si aggira sul palco esitante, si profonde in inchini, si avvicina al microfono per ringraziare ancora e per maledire il caldo dannato, si mette una mano imbarazzata sul capo, si asciuga dagli occhi il sudore o forse una di quelle lacrime, arretra verso l’uscita non smettendo un attimo di guardare la sua gente che lo acclama devota per aver partecipato ancora una volta ad un rito che da decenni è in grado di toccare i cuori. 

L’impressione è che anche lui, come il coetaneo Nick Cave, superata la boa dei sessanta si aggrappi ai propri fans come ad un salvagente necessario per affrontare quella parte della vita che vede ognuno, tanto più se baciato dal successo, fare i conti con il tempo che sfugge e con la paura di toccare la morte propria e dei propri cari, ed allo stesso tempo affrontare i nodi irrisolti della propria esistenza cercando di fare pace con se stessi.
Da trent’anni o poco meno non partecipavo a quella sorta di messa laica che è un concerto dei Cure, una messa con una sua liturgia che si è  consolidata con il tempo nei suoi celebranti, nei suoi fedeli e nei suoi riti obbligati. Una messa durante la quale ognuno dei presenti a suo modo vede, mentre i brani vengono snocciolati uno via l’altro, tutta la propria vita, o almeno gran parte della stessa, passare davanti agli occhi come un film in parte a colori in parte in bianco e nero. 

E cosi rivedi, la prima recensione di Seventeen Seconds  letta su ciao 2001 a quattordici anni, la tua compagna di classe che porta a scuola una copia in vinile di Pornography, le serate al Vinile di Rosa’ a ballare The Walk e Let’s go to bed, In between days che esce da un ghetto blaster trasmessa alla radio mentre sei con gli amici a cazzeggiare, il video dell’armadio sulla scogliera su Vdeomusic,  Kiss me nel walkman mandato a memoria durante le trasferte da  pendolare universitario  a Venezia, la Pictures of you colonna sonora della prima delusione sentimentale, il concerto del Disintegration tour sotto le mura di Cittadella, Wish nelle orecchie a Catania nei giorni dell’esame di stato, i testi amari e malinconici di Bloodflowers scritti da un quarantenne in piena crisi e letti durante l’ascolto nella nuova casa, la prima della mia vita adulta, le delusioni successivamente provate nell’approccio agli ultimi dischi in cui cercavi di trovare appigli per non buttar via tutto, e l’attesa infinita per un ultimo guizzo che potesse chiudere in gloria una storia che è andata avanti di pari passo con la tua. 

Perché  i Cure ci sono sempre stati sin da quando eravamo ragazzini e la voce di Robert Smith, in qualsiasi momento arrivi, riesce a collocarti in un momento reale ed emotivo preciso che ha spesso a che fare con una nostalgica visione di come eravamo.
Le quasi tre ore di concerto alla Kioene Arena sono quasi un incantesimo. Come ha scritto un amico sulla chat – perché poi un momento come questo è un richiamo per ritrovarsi davvero tutti sotto al palco-  : “hanno suonato da dio ma soprattutto hanno suonato tutto ciò  che dovevano suonare”. Poi è  vero che magari questa volta non erano in scaletta “Charlotte Sometimes” e “Shake Dog Shake” ma insomma…ci siamo capiti.
Lo spazio dedicato alle canzoni del sospirato nuovo album in uscita “Songs From a Lost World” non manca. Quattro i brani presentati tra i quali spiccano “Alone” in apertura di concerto che ruba dopo decenni il posto a “Plainsong”, e la desolata, lunghissima, Endsong” il cui testo, molto sentito e cantato a volte piangendo, racconta di un uomo che vede arrivare gli anni più difficili del percorso umano, perfettamente conscio che quanto ricevuto nella vita passata non sarà  sufficiente ad evitare la tristezza ed il dolore in arrivo.

Per il resto la oliatissima formazione a sei, con Perry Bamonte rientrato nei ranghi ad affiancare Robert ed i compagni degli ultimi dieci anni, ci srotola avanti il romanzo della nostra vita in cui i momenti piu’ depressi di “The Drowning man”, “Cold” ed “At night”, quelli disperati di “One hundred Years”,  From the edge of a Deep green Sea” e “39”, quelli rabbiosi di “Burn” e “Disintegration”, quelli corali di “Push” e “Play for today”, quelli melanconici di “Pictures of You” “Lovesong” ed “A Night Like This”, si susseguono in una sequenza strappacuore. E lì in mezzo si staglia quella “A Forest” momento di assoluto magico mistero che a più di quarant’anni ancora è  in grado di aggrapparsi all’anima come la prima volta.
Le hit sono tutte relegate nel secondo encore e qui Robert, comunque molto comunicativo durante tutto il set, si lascia davvero andare a frizzi e lazzi. Si parte con la danza del ragno di “Lullaby” ed  il groove rubato dai New Order di “The Walk”, quindi una breve pausa, due parole:  …so it’s Thursday eh…” ed il boato a seguire è  tale da coprire l’arpeggio iniziale di “Friday i’m in love” perfetta pop song che in pochi versi delinea la percezione della settimana che risiede nell’animo di ognuno. Quindi il gioco bizzarro di “Close to me” con uno Smith gigione come non mai, le irresistibili gemelle dreampop  In Between Days” e “Just Like Heaven” ed in coda l’unica chiusura possibile. 

I would say I’m sorry
If I thought that it would change your mind
But I know that this time
I have said too much
Been too unkind

I tried to laugh about it
Cover it all up with lies
I tried to laugh about it
Hiding the tears in my eyes
‘Cause boys don’t cry
Boys don’t cry

Ed alla voce di Robert e del pubblico si sovrappone nella mia mente quella di mia figlia mentre la canta totalmente assorta  in macchina.
Che quasi quarantacinque anni dopo quel racconto di colpa e redenzione scritto da un diciottenne arrivi ad emozionare così  profondamente una ragazza di un’altra epoca è forse il segno più palese del fatto che i Cure e Robert Smith, qualunque cosa accada, non moriranno mai. 

Long live The Cure.

 

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".