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King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me

Direi di metterla in questo modo.
E’ bastato un solo passaggio da cima a fondo dell’album di debutto dei King Hannah per comprendere che  uno dei posti sul personale podio di fine anno è già stabilmente occupato. E siamo solo alla fine di questo ennesimo crudele Febbraio.
Emozionarsi ancora per un album di esordio dopo anni di esperienza d’ascolto è diventata merce rara e che porta con se quel magico stupore che si vorrebbe poter replicare più spesso, quello che solo  la bellezza inattesa è in grado di rilasciare.

Nella messe immane di pubblicazioni settimanali mi era del tutto sfuggito nei mesi scorsi l’Ep Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine, che aveva messo su una mappa de mondo musicale ormai quasi illeggibile anche questo duo di Liverpool costituito da Hannah Merrick e Craig Whittle,  così come la riuscita cover della springsteeniana State Trooper, per cui sono giunto a questo ascolto con le orecchie del tutto vergini.  Anche l’album appena pubblicato per la City Slang porta un lungo titolo che appare quasi la continuazione di un colloquio iniziato con il precedente: “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me”. Parole che raccontano, di onestà, sincerità, cuori aperti, valori che appaiono una umile risposta all’imperante cinismo. 
E anche l’immagine per nulla artefatta del duo parla quella lingua, immagini che li ritraggono in campagna o in uno studio casalingo, uno scatto in copertina quasi casuale che li vede salire una collina e che richiama sorprendentemente la cover di un altro esordio eclatante uscito l’anno scorso, quello dei Black Country, New Road.
Poi terminato di scartare il vestito, arriva la musica ed è  subito una carezza al cuore che ti riporta a ciò che più ami.
(Contrab)basso e percussione, chitarre in volo a planare, la voce di Hannah subito intima, confessionale, profonda,  intona un canto in omaggio ad una Well Made Woman.
Il territorio è limitrofo a quello solcato dalla Harvey che cercava di portarci il suo amore, ma siamo lontani dalla mera bella calligrafia, l’intensità con cui è costruito il brano suona vera e pura ed emoziona.
Un lungo drone introduce il groove  dinoccolato di All Being Fine che evoca chiari fantasmi Opal / Mazzy Star. La voce incanta, sdraiata su chitarre che regalano sinistre vibrazioni.
Big Big Baby è un gioiello noir vestito di minaccia, con una coda nutrita di un’ inquietudine figlia dei Joy Division che trova requie nella successiva Ants crawling on an apple stork unico passaggio lasciato alla voce maschile di Craig, slowcore come potevano esserlo i Red House Painters, malinconico, etereo.
La notte più buia torna quando Hannah riprende il microfono per immergerci nell’appena increspato lago di emozioni “The moods that i get in”, il sussurro molto vicino a quello della Sandoval in quello che è il momento più intimo del disco, talmente crudo che è lei stessa ad avvertirti “If you do not like what I’m singing about / Well, then you really do not have to listen / You can just turn me off”.
Il trip hop di Foolius Caesar riporta un po’ di luce. Sembra di sentire una splendida outtake da “Dummy” dei Portishead, mai nessuno dei tanti epigoni del duo di Bristol è riuscito ad andare così vicino al blueprint originale, la matrice di suono sporca, il groove saltellante, chitarre sfiorate, sibili che paiono usciti da un Onde Martenot, e ti senti riportato a quel 1994, un bel sentire nonostante il richiamo sia quasi sfacciato.
Nostalgia canaglia.
Un passaggio ambientale di piano celebra la Death of the House Phone per introdurci al  gioiello di GO Kart Kid (Hell no), un personalissimo ricordo di infanzia a cavallo di un Go Kart,  tra un passato che prometteva qualcosa ed un presente che non è stato in grado di mantenere. Le chitarre distorte che deflagrano dopo l’ Hell no !  sono pura catarsi, liberazione, sfogo. Qualcosa di necessario e inevitabile.
La title track scivola su sabbie mobili slowcore di matrice americana ed è quasi un tutt’uno con la pacificata strumentale Berenson, intrisa di serena quiete.
It’s Me and You, Kid,  che è come dire “noi due soli contro il mondo”, è una frase che è diventata una sorta di personale gioco tra Hannah e Craig, un sigillo ad un amicizia profondamente radicata.
Ed è,  evidentemente non a caso,  il brano che porta questo titolo, introdotto sussurrando e terminato in una nube shoegaze, a chiudere questo prezioso scrigno di bellezza.
Bellezza, già bellezza.
Ce ne vuole tanta per contrastare quanto di orrendo questi anni ci stanno riservando, forse non basterà ma non smettere mai di cercarla appare oggi come l’unica scelta che abbia senso.

 

 

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".