Get Back, JoJo.
Che gioco stupido è Trivial Puirsuit! L’ennesima partita, questo passava il convento nell’inutile sabato sera di un maggio trascorso. Al tavolo solo qualche maschietto con l’aria annoiata. Dal mazzo mi uscì una domanda piuttosto approssimativa: “Qual è stato l’ultimo album che i Beatles registrarono insieme?”. La risposta corretta era “Abbey Road”, ma, sfortunatamente per la mia sobrietà, quella sulla carta recitava “Let It Be”. Avrei voluto cancellarla e scrivere a caratteri cubitali, come quei ti amo che campeggiano sui muri delle strade, l’epigrafe “Abbey Road”, ma qualcuno urlò: “Carta canta!”.
“Let It Be”, l’impopolare ultimo album. Il controverso sviluppo dello registrazioni, le discussioni intorno alla sua produzione, Phil Spector davvero rovinò l’album? Il secchione dentro me gradirebbe poter formulare ogni tipo di argomentazione. Grattarmi la barba e aggrottarmi la fronte in modo significativo e decidere che l’acetato di “Get Back” è la cosa migliore o che lo sia “Let It Be Naked” di McCartney, ma lo scherno, per un album che doveva essere un ritorno alle origini e che è diventato uno dei più controversi della storia del rock, prende il sopravvento. Sono cresciuto con il “Let It Be” di Spector, quegli archi saccenti e i cori su “Long and Winding Road” sono stati essenziali per la mia esperienza di ascolto. Sì, è un disco frammentato, spesso non scorre nel modo giusto eppure scivola esattamente come dovrebbe. Mi ritrovo sovente a pensare quale strano gioco sia diventato oggi l’ascoltare i dischi. È la stampa giusta? È masterizzata o è rimasterizzata correttamente, qual è il nastro sorgente, analogico o digitale, e chi l’ha prodotto meglio. Devo ammettere che è molto divertente purtuttavia rimpiango i giorni nei quali ero semplicemente felice di trovarne una copia, nuova, usata, fallata che fosse e gli audiofili erano quegli strani uomini trinariciuti che provavano buffe attrezzature stereofoniche sulla Quarta Sinfonia di Mahler.
Ah, i Beatles. Partiamo con una piccola correzione del protocollo. Tecnicamente, “Let It Be” fu il loro ultimo disco. Pubblicato l’8 maggio 1970, un mese dopo (10 aprile 1970) quel noto comunicato stampa di Paul. “Paul is quitting The Beatles”, come annunciava il Daily Mirror, “for personal differences, business differences, musical differences, but most of all because I have a better time with my family. Temporary or permanent? I don’t really know”. Fu anche l’ultimo disco per il quale tre dei quattro, mancava John, registrarono in studio, per l’esattezza si trattava di “I Me Mine”, il 3 gennaio 1970 in quel di Abbey Road. Il missaggio e la post produzione definitivi furono effettuati da Phil Spector tra il marzo e l’aprile del 1970. Perfetto per collocarsi al crocevia di quei percorsi umani e artistici che dai Quarrymen li avevano condotti come dei trovatelli di Baker Street sui tetti di Londra al numero 3 di Savile Row. Però la prima sessione di “Let It Be” ebbe luogo il 3 gennaio 1969 negli studi cinematografici di Twickenham, nei dintorni di Londra, dove, qualche anno prima, Lewis Gilbert aveva girato “Alfie” e Roman Polanski “Repulsion”.
Dopo la morte di Brian Epstein, Paul cercò di attribuirsi il ruolo principale. John, incontrato Yoko, aveva iniziato a condurla nel sancta sanctorum, lo studio, dove nessuna moglie o fidanzata prima era stata ammessa. Quando tornarono a casa dal viaggio in India, Ringo tornò in anticipo perché odiava il cibo, cosa che me lo fa amare ancora di più, era rinata l’amicizia. Si riunirono a casa di George, a Esher nel Surrey, e registrarono dei demo che avremmo poi ascoltato nella super deluxe del “White Album”. Purtroppo, quella buona volontà a poco a poco si dissipò.
Fu un’idea di Paul quella di suonare in studio come dal vivo, il famigerato progetto “Get Back”. Vide un documentario su Picasso dove riprendevano il pittore mentre avviava il suo percorso artistico e creativo e ne seguiva i progressi fino alla fine. Paul voleva filmare le loro prove per uno speciale televisivo e poi incidere le nuove canzoni, ma parte di quelle registrazioni furono disastrose. George lasciò tutti dopo tre giorni. Le sue condizioni per tornare erano: nessun concerto dal vivo, l’idea lo terrorizzava, tornare agli Apple Studio e abbandonare Twickenham. Conclusero tutto con il famoso concerto sul tetto (il rooftop) e sorpresero il West End di Londra durante il pranzo di un freddo giovedì di gennaio. Sarebbe stato il loro ultimo show.
In quel preciso momento il tortuoso piano di Paul per rivitalizzare i Beatles, il progetto denominato “Get Back”, era quindi una sorta di back to the roots ovverosia suonare gran parte del materiale senza cedere alle manipolazioni dello studio. Ma si rivelò fallimentare. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevano fatto qualcosa del genere. Ascoltando le prime take registrate a Twickenham si percepisce quanto i risultati fossero dolorosamente arrugginiti. Sarebbe stato necessario passare più tempo insieme, rispondere a una maggiore esigenza di compromessi, cosa molto più facile nel 1963 piuttosto che nel 1969. E, infine, era semplicemente sbagliato. Una cosa è abbandonare un proposito che non funziona e ritornare sui propri passi, ma il concetto di back to the roots partendo da un livello che si padroneggia così perfettamente è, a dir poco, assurdo. In poche parole, il piano di Paul era condannato fin dall’inizio al fallimento. Il take it easy di Paul era inequivocabilmente inteso come take it easy and just do as I say, che lo intendesse effettivamente o meno. Paul dimostrò solo quello che molti avevano già capito: cioè, che essere uno degli artisti più geniali del novecento non ti rende automaticamente una mosca cocchiera. Ipotesi uno: in un certo senso, Paul con il piano “Get Back” uccise i Beatles, iniettando una dose letale di pseudo cameratismo in luogo di un processo più attento e graduale. Probabilmente la strategia più corretta all’epoca, se si voleva davvero preservare la band come un’entità unica, era quella di prendersi una pausa, lasciare che, dopo le session del “White Album”, i nervi di tutti si raffreddassero, inventare steccati alternativi per l’individualità di ognuno.
Oppure no. Ipotesi due. In “Let It Be” sembra esserci un tema continuo sul dolore e la distruzione. Ma non è solo questo. Quando iniziarono a registrare “Abbey Road”, il 26 aprile del 1969, erano tornati nei Trident Studios, tra i fantasmi di Soho, e registrare “I Want You (She’s So Heavy)” circa tre settimane dopo il rooftop, non rappresentava certo la rottura. Quello che amo di “Get Back” è che, anche se sono diversi, ancora collaborano. John suona con Paul “Gimme Some Truth”, sono una partnership. Solo George sembra isolato. Inizia “Something” e risulta evidente che John e Paul si sarebbero aiutati a vicenda, ma non avrebbero aiutato lui, perché non era Lennon-McCartney, era, come lo chiamava John, Harrisongs. Sta provando “Something” e… “Attracts me like a pomegranate…, non riesco a trovare la parola”. John risponde “Beh, usa le parole fallo e basta… o lascia perdere”. E ride. Si sente: “Abbiamo bisogno di altre canzoni”. E John ancora: “Ho la domenica libera. Butto giù un paio di rock’n’roll”. E Paul: “Ci provo anche io”. Quando si ritrovano, Paul inizia a suonare il tema di “Let It Be”, e allora John: “Gli manca solo il testo”. Quella geniale collaborazione esiste ancora, si sente quel sorprendente reciproco rispetto, vicino il più possibile alla mia concezione di poesia. In tutto “Let It Be”, consapevoli dei fallimenti, anche personali, stanno cercando di restare uniti, stanno cercando di tornare a essere i Beatles e suonare “One After 909” e tutto quel genere di cose lì, significa riprendersi quell’amichevole atmosfera della serate all’Indra Club e allo Star Club di Amburgo dove tra caotiche dissolutezze scorreva sottotraccia l’inizio di una rivoluzione musicale, il codice della loro creatività. Vogliono semplicemente uscire dall’incubo. Ma non puoi, perché sei una persona diversa. Non funziona più. “Let It Be” è questo. Però amo quel cameratismo, amo la percezione di un caos enormemente funzionale. Pensa a una qualsiasi band d’oggi che dicesse: “Sai che faremo? Non abbiamo scritto nulla, ma tra tre settimane ci esibiremo in concerto con un mucchio di nuove canzoni”. Ci sarebbero riusciti nel 1965 o nel 1966 o nel 1964, perché John e Paul erano vicini nella stessa stanza, tutto il tempo. Brian Epstein diceva: “Avete due settimane per fare un album”, e loro andavano a registrare “Revolver” o “Rubber Soul”. Così quando senti “Gimme Some Truth”, pensi, cristo santo se solo avessero passato quelle ore insieme, l’avrebbero finita. Ma non lo fecero.
Storie di produttori. “Let It Be” è uscito nel 1970, ma per il novantanove per cento delle possibili ragioni è da collocarsi all’inizio del 1969; e riconoscerò sempre a Phil Spector il merito di aver conservato gran parte dell’attitudine di un anno prima. Fu pesantemente criticato per il fatto che il disco suonasse lacunoso e incompiuto, ma ciò rappresentava quello che erano, la tensione o, forse, per tutti loro una supplica inconscia. Quando trattiamo di produttori, contano gli approcci. George Martin era un uomo da progetto. Gli piaceva che le cose fossero organizzate. È divertente, perché il “White Album” e “Let It Be” non lo erano, ma “Abbey Road” sì. Glyn Johns era un ingegnere del suono molto, molto bravo. Istinto puro. E Phil Spector era Phil Spector. Voleva plasmare un artista nella sua visione. Quello era Phil Spector. Il suo ruolo nell’album è solitamente ricordato come quello del tizio che mise quegli archi sdolcinati su “The Long And Winding Road”, ma Spector prese la caotica, confusa, incoerente massa di nastri delle sessioni del gennaio 1969 e ne tirò fuori il meglio. Riuscì in qualche modo a trasmetterci lo spirito disordinato e teso delle sessioni e, allo stesso tempo, evitò di mostrarci tutta la loro eventuale scipitezza. In altre parole, “Let It Be” è un glorioso geniale guazzabuglio. Dato che l’intenzione era quella di registrare tutto dal vivo durante le sessioni di “Get Back” il ruolo di George Martin risultò ridotto. Glyn Johns aveva più responsabilità. Dopo le registrazioni, prese i nastri grezzi e mise insieme un acetato di quello che pensava potesse essere “Get Back”. Doveva essere solo un punto di partenza, un’idea. Diede quattro copie a ciascuno dei membri della band. Non ne furono impressionati. Era troppo decomposto per i loro gusti. Alla fine li accantonarono. In seguito all’uscita di “Abbey Road”, in piena separazione, consegnarono i nastri a Spector per mettere insieme quel disco che il mercato richiedeva. George Martin riteneva che i credits dovessero recitare: “Prodotto da George Martin, post prodotto da Phil Spector”. Paul non fu consultato per il missaggio finale, era furioso per l’arrangiamento di “The Long And Winding Road”. Avevi un progetto denominato “Get Back” per simboleggiare un’esecuzione senza fronzoli e poi lo consegni a Phil Spector? I critici li arrostirono. Quando uscì “Let It Be”, ricevette le peggiori recensioni della loro storia.
Se l’idea originale di Paul era registrare la versione finale dal vivo, Spector rispettò questo intento, anche se solo quattro delle canzoni incluse furono prese dal rooftop. Tenne tutta quella atmosfera, piccoli dialoghi, pseudo annunci, “I Dig a Pygmy’, by Charles Hawtrey and the Deaf Aids… Phase One, in which Doris gets her oats!”, piccole stranezze come la comica interpretazione a cappella di “Danny Boy” di Conway Twitty. Prendete frammenti come “Maggie Mae” e una parte della jam di “Dig It” che introduce il disco e la sensazione informale e sparpagliata è completa. Proprio la marmellata di “Dig It” e l’occasionale stupidità di “Maggie Mae”, dedicata a una leggendaria prostituta di Lime Street, forniscono quell’autenticità. Il “Thank you on behalf of the group and ourselves, and I hope we passed the audition” di John che sta alla fine, ci sarebbe mai stato un motivo di pronunciarlo in qualsiasi disco precedente? “Across The Universe” è intenzionalmente trascendentale, è probabilmente la quintessenza della canzone trascendentale, quindi filosofica e poetica nello stesso tempo. Lo fanno di nuovo, non senza ironia, considerando come questo maestoso, graziosamente fluente, umilmente meditativo inno fu scritto e registrato all’apice dei battibecchi personali. Non si può discutere l’estasi religiosa di “Let It Be”, nella versione dell’album l’assolo di George è più dinamico, stridente, sale in alto prima di scendere con eleganza. Per quanto riguarda “The Long And Winding Road”, è arduo per me affermare se funzioni meglio con o senza l’arrangiamento di Spector. Tutto il suo pathos è lì fin dall’inizio. Se fosse lo stupore per l’ennesima impeccabile combinazione piano/voce dritta dal cuore di Macca, l’arrangiamento con gli archi non ti nasconde nulla. Delle canzoni sul tetto, “Get Back” è bloccato in un groove così stretto e diretto che probabilmente è il più grande contributo di Paul al mondo del boogie, quel ritmo martellante, una marcia di cavalleria, sembra così elementare quando ci pensi, ma, in qualche modo, nessuno l’aveva mai fatto così prima. Se avessero suonato tutte le canzoni così rilassati e ispirati, l’esplicito messaggio di “Get back to where you once belonged” non si sarebbe andato sprecato. “I’ve Got A Feeling” è la gemma dimenticata dell’album. Un inizio del secondo lato di classe, fresco, stimolante; possiede uno dei migliori riff della band; sono due canzoni che si alternano e poi s’incastrano l’una nell’altra; George suona il giro più cattivo della sua carriera, è probabilmente la migliore ode al mondo, alla capacità umana di percepire. “I Me Mine”, per quanto fantastica, dura solo 1:34, e Spector ripeté due volte la stessa sezione per portarla a un più logico completamento, con sovraincisioni di ottoni sulla seconda strofa per non farla sembrare troppo ovvia. “Dig A Pony” dà la sensazione di lasciare troppe linee melodiche irrisolte, come se non ci fosse tempo per completarla. Anche “For You Blue” sembra spoglia, nonostante la prediliga per la sua strana combinazione di suoni, John che suona la lap steel e Paul che se la fa con un piano elettrico che sembra essere stato trascinato fuori, alla luce di un sole tropicale, e lasciato ad asciugare per dodici ore di fila. Ti senti fisicamente disidratato ogni volta che la senti. “Two of Us”, mostra tutta l’influenza degli Everly Brothers. Ho sempre pensato che la canzone fosse di Paul che scriveva di John, ma, in realtà, stava scrivendo di Linda, “You and I have memories longer than the road that stretches out ahead”. “One After 909”, originariamente scritta a Forthlin Road nel cottage dei McCartney nel 1957, è un rock’n’roll alla Chuck Berry.
“Let It Be” resta in parti uguali un album dei Beatles e un documento storico, e dovrebbe essere preso come tale. Guardate il film “Let It Be”: in tutto quel freddo miserabile del gennaio 1969, il momento più felice avvenne durante quei quaranta minuti di gioco sul tetto. All’ultimo istante del suo folle piano, Paul aveva finalmente fatto le cose per bene.
Ho ascoltato ripetutamente la super deluxe di “Let It Be”. Il disco 1 offre il remix dell’album a cura di Giles Martin e di Sam Okell, lo stesso team che ha lavorato già a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, al “White Album” e ad “Abbey Road”. Perfetto non altera nulla e racchiude tutto. I dischi 2 e 3 sono outtakes e jam dalle “Get Back Apple Session”. Devo essere onesto, ho sempre fantasticato su tutto quello che hanno registrato. Presumibilmente tonnellate di vecchie cover, ma qui sono assenti. Alcune cose sono formidabili. A un certo punto, dopo aver lanciato “Let It Be” parte una rinnovata “Please Please Me”, “Wake Up Little Susie” degli Everly Brothers si fa strada in “I Me Mine”. George convince la band a suonare “All Things Must Pass”. Ci sono molte canzoni che alla fine sarebbero finite su “Abbey Road”. Le prime versioni di “She Came In Through the Bathroom Window”, “Polythene Pam” e uno stralcio di “Something” sono tutte qui. Sentire Ringo suonare “Octopus’s Garden” al piano con George che lo incoraggia è commovente. La versione di “Oh Darling!” è una jam. Molte cose stavano su “Anthology 3”, però, è fantastico ascoltare questi ragazzi che si riscoprono l’un l’altro come una band e ritrovano la loro chimica preziosa, anzi, pietre preziose che si trovano incastrate in quelle rocce profonde che siamo soliti indicare col nome di Beatles. Il disco 4 è il famigerato acetato di Glyn Johns. “Get Back” presenta first take, false partenze e risate, tante risate. Improvvisamente, un coro quasi sciatto di “Save the Last Dance for Me” dei Drifters sfocia in “Don’t Let Me Down”. Uno struggente peana intonato da John a Yoko sul quale centinaia di gruppi avrebbero costruito una carriera e che qui finì per essere la b side di un singolo. Ebbene questa versione quando entra in coppia ti prende e ti trascina via. Giuro, ho chiuso gli occhi e mi sono risvegliato in un altro luogo. Il disco 5 propone nuovi mix di “Don’t Let Me Down” e ”Let It Be” così come di “I Me Mine” e “Across the Universe”. Alla fine qualcuno potrebbe chiedersi se avessimo davvero bisogno di altre versioni di “I’ve Got a Feeling” o di “Get Back”. La risposta è sì, come abbiamo bisogno di boccate d’aria per respirare, così nella musica di armonici, invariabili nel tempo, per imparare a governarlo, il tempo.
Una fredda mattina di gennaio del 1969, sotto un cielo bianco, nella luce ancora incerta e livida, tre Beatles sono riuniti in studio a Twickenham, cineprese in funzione e microfoni ovunque.
“John è di nuovo in ritardo”, dice Paul e attacca il basso all’amplificatore. Ringo e George sono seduti davanti a lui; tè, toast, burro e marmellata sistemati da una parte, come in un albergo a cinque stelle. Paul inizia a strimpellare qualcosa in cerca di ispirazione. In pochi minuti, prende vita una melodia familiare. Per magia, un classico dei Beatles sbuca dal nulla, le nuvole si moltiplicano e si fondono, i cumulonembi si gonfiano come panna montata.
Più tardi arriva John, le quattro divinità del rock si riuniscono in cerchio come nel Libro tibetano dei morti. Litigano, scherzano. C’era quella cosa del concerto speciale per la TV, canzoni nuove di zecca, ma qualcuno sembra averne paura, paura forse anche dell’uno coll’altro. John pomposamente proclama che comunicare col pubblico è il suo unico scopo, mentre Paul li sfida a mostrare entusiasmo per il progetto o, magari, abbandonarlo. George sbotta quello che forse tutti stanno pensando: “E se ognuno se ne andasse per la propria strada?”.
Immagino così l’inizio di “The Beatles: Get Back” di Peter Jackson, un progetto di oltre sette ore che uscirà in tre episodi su Disney Plus dal 25 al 27 novembre, racchiudendo i due punti di vista del periodo più contestato della storia dei Beatles: la gloria della creazione artistica della band più amata e influente del pianeta e i conflitti che portarono al suo scioglimento. Entrare nella macchina del tempo e sedersi in un angolo, la descrizione dei nostri sogni di bambini. Jackson ha lavorato su sessanta ore di filmati. Quell’inverno del malcontento era già stato il soggetto del già citato “Let It Be” il film di Michael Lindsay-Hogg del 1970. Col tempo, quel film si guadagnò la reputazione di un documento filmato sul collasso della band. Eppure questa narrazione è stata a lungo contestata. Il film di Lindsay-Hogg fu montato selettivamente per ottenere il massimo del grigiore, forse per spiegare retroattivamente la rottura.
Il documentario di Jackson, invece, è un fuoco di fila su uno dei dibattiti più longevi, scoprire come sono finiti i Beatles? La sola esistenza di “ The Beatles: Get Back” è il segno che, più di mezzo secolo dopo il loro scioglimento, la storia è ancora irrisolta. Il lavoro del regista neozelandese arriva con l’autorità di una pietra rovente, scagliata dalla cima del monte Fato, può diventare la parola definitiva. “Non ci sono buoni, non ci sono cattivi” ha commentato, “Non ci sono eroi. È solo una storia di uomini”. Quella storia contiene moltitudini (sorry Bob), la gioia, la magnificenza, il conflitto e la meraviglia di quattro ragazzi che, per sempre, suoneranno musica sui tetti di Londra.