IOSONOUNCANE: TOdays Festival 2021 – Day 3
Rimetto piede nello Spazio,…. lo Spazio 211 ad essere piu’ preciso. Man mano che mi avvicinavo all’area il suono si faceva più presente e più nitido. Ora sono qui all’ingresso.
Metto mano allo schermo per riattivare Immuni, cerco tra i miei lasciapassare verdi, recupero l’ultimo e il guardiano alla porta dopo avermi scannerizzato per bene mi dà il via libera.
Il suono che mi giunge addosso è il primo che arriva ai miei padiglioni auricolari dalla fine di dicembre del 2019.
Niccolo Fabi al Teatro comunale di Vicenza, l’ultimo momento davanti ad un palco prima della pandemia è stato quello.
Due mesi dopo il contagio in arrivo si sarebbe messo tra me e gli Algiers con un preavviso di appena un paio di giorni. Fine della storia.
Sono trascorsi venti mesi e sono per puro caso gli Shout Out Louds da Stoccolma a darmi il bentornato nel mondo della musica “dal vivo” con i loro riverberi Cure/New Order che in qualche modo mi fanno ri-sentire subito a casa.
IL Todays, magica creatura festivaliera messa in piedi a Torino da Gianluca Gozzi, ci ha provato in tutti i modi a rimettersi in piedi dopo la bastonata ricevuta l’anno scorso, allestendo, considerati i tempi amari per le trasferte oltre Manica e oltre Oceano, tra Brexit e Contagi, una line up di tutto rispetto perfettamente equidivisa tra nomi stranieri ed autoctoni.
IL cartellone, nonostante le defezioni degli ultimi giorni di parte della spedizione britannica (Black Country, New Road, Working men’s club, Arlo Parks) che hanno lasciato un goccio d’amaro in bocca, rimane sufficientemente solido e nei giorni precedenti più di un momento (Dry Cleaning, Laszlo De Simone, Teho Teardo) ha suscitato l’approvazione, se non l’entusiasmo, delle molte facce amiche, provenienti dalle più varie regioni del paese, che mi accolgono sorridendo man mano che mi avvicino al palco.
Ad ognuno di noi in base ai protocolli è stato affibbiato un posto numerato che dovremmo occupare nel corso delle esibizioni ma la disposizione a quanto vedo resta in parte disattesa nonostante gli sporadici sforzi della non molto nutrita security di farci accomodare.
Poi arriva il momento atteso, mentre chiacchieriamo bevendo insieme una birra filtrano i primi barbagli oscillanti di suono sintetico, una sorta di spettro inizia ad aleggiare sulle nostre teste.
Saluto e raggiungo il mio posto, poiché il primo dei motivi che mi ha portato qui stasera non è di quelli che si possono affrontare chiacchierando con una birra in mano.
IRA richiede attenzione, cura, dedizione, soltanto così è in grado di esprimere appieno il proprio incantesimo suadente e violento al tempo stesso.
IRA di Jacopo Incani in arte Iosonouncane, lo scrivo a beneficio di chi fosse vissuto nello Spazio – non il 211 – negli ultimi mesi, è uno dei dischi più interessanti pubblicati quest’anno e non solo limitando la cerchia a quelli usciti in questo paese.
Avrebbe dovuto essere presentato in forma integrale dal vivo nei teatri dall’intero ensemble che ha partecipato alla sua realizzazione, durata cinque anni, ma la pandemia si è messa di traverso rinviando di un anno buono l’appuntamento che si svolge peraltro in una forma ridotta, ben diversa da quella che Incani aveva in mente che invece verrà recuperata nella stagione autunno-inverno.
E’ la creatura a tre teste che emerge nella penombra, in forma di mera silhouette, a rendere palese che siamo di fronte a qualcosa di diverso dal consueto setup, quello di un’intera band che suona.
Le tre teste appartengono a Bruno Germano – produttore di Ira -, Amedeo Perri e naturalmente il deus ex machina Jacopo Incani. Il corpo deforme è costituito da sintetizzatori, organi, campionatori, sequencer, macchine di ogni genere ma nessun laptop, ed è un corpo in grado di produrre un racconto sonoro unico, privo di soluzione di continuità, una sorta di lirico canto di balena immerso in un magma scuro come pece.
E’ la cadenza di “Prison” ad emergere dalle oscurità marine, il profondo battito costante e il dolente canto memore delle navi negriere incedono lenti prima di sfociare progressivamente in robotiche sequenze calpestate dalle urla isteriche di Incani che evocano scenari di deportazione in un parossistico crescendo che, giunto al culmine dell’angoscia, evolve nell’inquieto ribollire di “Ojos”.
La calma è solo apparente, onde di synth e voci si incrociano in arabeschi che si sciolgono a pelo d’acqua lasciando infine soltanto il beep elettronico di un allarme a condurci, come una sorta di traccia necessaria che ci guida nel “Buio” che segue il “Die”.
La calma minacciosa si stempera in una sorta di “in-can-to” delle sirene, le note prodotte dall’animale a tre teste rimbalzano da un lato all’altro dell’arena lasciandoci spaesati fino alle prime parole in italiano cantate da Incani, fragile salvagente cui appendersi per evitare di smarrirsi…. “calano le reti e alti vanno i gabbiani sul porto”.
SI resta così, aggrappati in attesa, sospesi , quando già sopraggiunge la nuova onda di marea, la senti arrivare molto prima di vederla, ne avverti lo spostamento d’aria, è “Jabal” a riprendere il filo interrotto dell’”Ira” e sei presto in sua balia come su una giostra da cui non si può scendere, in un gorgo che ti richiama verso il fondo, un maelstrom che prende velocità fino a farti perdere i sensi e sprofondare nell’oblio.
Il corpo della bestia assume quindi nuove sembianze, diventa “Tanca” un’imbarcazione che giunge in tuo soccorso, viene a prenderti un attimo prima che tu ti perda.
Spoglie le rive, il sole
Schiassa contro gli scogli
Fame rinasce fame
Nella pietra e muore
Senza ricordi
Falce viene, si trascina nel sale
E il sale ancora
Scava sete nella sete
Il barbuto capitano del battello alza il braccio, si lascia andare ad un mesto canto sul mare color “Petrole”, momento lirico necessario per prendere fiato come quando emergi da un’apnea, il tanto che serve per riempire i polmoni di ossigeno mentre già si avverte l’arrivo del drone “Hajar”.
Il cerchio si chiude e la rete di suono viene calata, lenta ma inesorabile, i pescatori sul palco la manovrano a dovere, gira su sè stessa, il Rais Incani comanda la danza che porta alla mattanza, la sua voce un arpione, siamo in trappola, ipnotizzati, giriamo nel cerchio pronti per la fiocina in un parossistico crescendo che si spezza soltanto quando il colpo definitivo arriva
Il silenzio che segue è quasi doloroso, porta un brivido alla schiena.
La bestia a tre teste si smembra, le luci si spengono.
E’ come risvegliarsi dopo un sonno inquieto, la trance, a metà tra sogno ed incubo, è durata un’ora, poco più.
Intorno a me centinaia di persone, avevo dimenticato che ci fossero.
Resto seduto ancora un po’ prima di cercare chi era con me.
I venti mesi di digiuno sonoro sono un ricordo lontano.