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American Head: The Flaming Lips (Bella Union 2020)

Ad ogni ascolto American Head sale di una tacca.
Stamattina al sesto o settimo ascolto mi sono reso conto che ha superato persino The Soft Bulletin nella mia scala di gradimento personale. E The Soft Bulletin era sul gradino più alto del podio.
La qualità e la naturalezza delle melodie, l’emozione che è capace di evocare in ogni passaggio, lo spazio sonoro in cui la musica si muove, il cantato emotivamente e tecnicamente fragile di Coyne che in passato ho trovato persino fastidioso per la sua insicurezza, è in grado di toccare in modo gentile e potente i tasti della mente e del cuore.
Il che sostanzialmente è quello che si chiede ad un disco.
Con American Head i Lips hanno deciso di mettere in un angolo la loro indole più freak quella che li ha portati spesso a cercare la stranezza, l’esperimento, la folle eccentricità ad ogni costo fino a giungere a momenti di solipsismo autoreferenziale a tratti insostenibile.
Vedo già  i ditini alzati di qualcuno, pronti ad evidenziare che se non apprezzi il lato sperimentale della band, quello che osa, di fatto rigetti i veri Flaming Lips che sono quelli di The Terror, di Zaireeka, di King’s Mouth.flaming lips
Capisco il punto e non posso dare loro torto.
Ciononostante non riesco a non vedere che quando i Lips mettono la loro capacità di creare atmosfere sonore del tutto peculiari, di sperimentare sui suoni, di costruire strutture anche audaci  al servizio di canzoni che arrivano dritte al cuore l’alchimia è talmente potente da lasciare una traccia duratura che non sbiadisce con il tempo, cosa che difficilmente si può dire di altri loro lavori.
American Head è un disco che resterà, un caposaldo in una carriera quasi trentennale, una roccia solida cui ancorarsi in questo anno di incognite e dubbi. E’ un disco che si scioglie in modo naturale nella sostanza di questo settembre ancora immerso nei tepori estivi seppur mai mancante della sua peculiare malinconia.flaming lips
Non c’è un momento di stanca, nulla è superfluo in questa Testa Americana talmente intrisa di colori da lasciarli colare fuori dagli occhi, come nel ritratto di copertina.
La scrittura e’ solida quasi classica, il passo stabile ma non statico, il magma sonoro costruito da Steve Drozd e Dave Friedmann è psichedelico dall’inizio alla fine, lisergico pur restando perfettamente lucido. Del resto le sostanze psicotrope sono ovunque qui, a partire dai titoli: “”Mother i’ve taken LSD”, “You’n’me sellin Weed”, “When We Die, When We’re High”, “At the Movies on Quaaludes”.
E’ questo il sortilegio di questo album: restare in sereno e solido equilibrio seppure immerso in una sorta di acida foschia in cui la magniloquenza degli archi (Mother please don’t’ be sad”)  sposa in splendida armonia i sintetizzatori, i delay, i phaser, gli wah wha (“When we die, when we’re high…”, “Assassins of Youth”) in una cattedrale maestosa pur nella sua sobrieta’,  edificata magistralmente da chitarre, pianoforte e batteria.flaming lips
Se c’è un opera cui American Head si può  affiancare nella sua drogata classicità è il capolavoro dei quasi fratelli Mercury Rev “Deserter’s songs”.
L’afflato è simile pur nelle percepibili differenze
“Will you Return/When we come down”, “Flower of Neptune 6”, “Dinosaurs on the Mountain”, “My Religion is You” in quest’opera sono fatte della medesima sostanza di “Holes”  di “Opus 40” di “Tonite it Shows”, di “Goddess on a Hiway” in quella.
Solo gli eccipienti sono differenti, un po’ più acidi in “American Head” più basici invece in “Deserter’s Songs”
Ritrovarsi di fronte ad un tale concentrato di incantevole armonia vent’anni dopo, ne converrete, è un bel colpo di fortuna in un anno che di sfiga ne ha regalata parecchia.
Li si era dati per smarriti nelle loro bolle,
Si sono fatti ritrovare quando più se ne aveva bisogno, le bolle mai cosi significative in quest’epoca di distanziamento.

Lunga vita ai Lips.

 

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".