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“Three Chords & The Truth”:Van Morrison (2019)

Sono ormai 56 gli anni di carriera di questo monumento vivente, inaugurati dall’irruenza giovanile e un po’ arrogante di quel gruppo di teppisti garage-soul di Belfast chiamati Them, poi via via smussata, ripresa, adattata,trattenuta nel prosieguo di una carriera solista che ha partorito gemme incommensurabili e autentici capolavori (“Astral Weeks” è sicuramente appartenente a questa categoria: inclassificabile, rimane l’album che chiunque deve possedere).
Benché ogni suo album contenga almeno una canzone che molti suoi colleghi sognerebbero di aver scritto e realizzato, in un periodo così lungo risultano inevitabili delle cadute di tono, soprattutto se si tiene una media di pubblicazione di quasi un disco all’anno, frequenza rispettata fino alla realizzazione di “Hymns To The Silence”, primo album doppio (live esclusi) dell’irlandese, nonché ultimo davvero meritevole di elevata considerazione.van morrison
Quel disco rappresentava anche di una sorta di spartiacque tra due fasi cruciali: quella del mantenimento di uno standard elevato e quella delle collaborazioni coi più disparati personaggi (Georgie Fame, Mose Allison, Ben Sidran, Lonnie Donegan, Linda Gayle Lewis, sorella di Jerry Lee), generalmente prive di una ragione che andasse oltre la nostalgia, e alcune uscite in proprio sfocate, con rare punte eccellenti (“The Healing Game” la migliore) prima di una sorta di “rinascita” (tema caro al nostro) che da “Keep It Simple” l’ha visto tornare prepotentemente in pista con un’assiduità che avevamo scordato di attribuirgli: ben 5 lavori nell’arco di 20 mesi.
Oggi, dopo un’adeguata attesa che depone a favore della meditazione attorno al progetto, il 42mo album in studio di George Ivan Morrison, in arte Van, è una realtà.
Three Chords & The Truth” (titolo che dovrebbe essere un omaggio al cantautore country Harlan Howard) è un lavoro che ricuce i fili del discorso interrotto con quel “celtic soul” che aveva caratterizzato tutta la produzione, riprendendo vigore a partire da “Into The Music” e passando per “Beautiful Vision” fino a “No Guru, No Method, No Teacher” (forse il più simile a quello di cui stiamo trattando), generando capolavori che non hanno mai perso la freschezza dei primi ascolti nonostante la compulsiva frequentazione.
Tra collaboratori di lungo corso (lo specialista dell’organo Hammond Jon Allair, la pianista e percussionista Teena Lyle, David Hayes al basso e il chitarrista acustico Jay Berliner sono apparsi a più riprese a fianco dell’irlandese) e nomi apparsi nelle prove più recenti, le nuove ballate rivelano il feeling instaurato tra il leader e le due formazioni presenti, senza che se ne avverta sensibilmente la differenza.

La predisposizione all’ascolto dovrebbe essere aiutata dalla propria poltrona preferita e un buon bicchiere di brandy o irish whiskey posizionato vicino a una candela per scaldarlo lentamente: giusto quei 10 minuti perché scorrano le prime due canzoni, la contemplativa March Wind In February e la già notevole Fame Will Eat The Soul (Allair in cattedra e un duetto vocale con Bill Medley), in modo da poter assaporare il distillato facendosi assorbire completamente da quella che è il vero capolavoro di questo album.
Dark Night Of The Soul è un gioiello di equilibri: ritmo rilassato, chitarra accennata, piano e organo sui quali poggia la consueta voce stentorea che esprime tutta la spiritualità che torna ad affacciarsi quale tematica portante del lavoro, come rivelato anche dalle precedenti e dalla successiva, ottima In Search Of Grace.
Dopo quattro brani di tale portata, una parentesi “di genere” comprendente brani di varia estrazione, dal jazz-blues (la frizzante Nobody In Charge e la splendida, lenta e riflessiva, You Don’t Understand), al pop-soul (Read Between The Lines) fino all’easy listening di classe (Does Love Conquer All?). Abbastanza incongruente, in compenso, il rock and roll di Early Days, dal testo nostalgico: un brano in stile Blasters (!) che appare un po’ avulso dal contesto dell’album.
Con If We Wait For Mountains torniamo nei territori più caratteristici, giusto per prepararci a Up On Broadway, altro gioiello che permette a Morrison di sfoderare un’altra grande interpretazione.
La title track è un r&b (lo dice anche il ritornello: “Three chords and the truth, a shot of rhythm and blues”) affascinante con Van che gigioneggia nel finale, come sua abitudine, giocando sul termine “truth” ripetuto più volte.
C’è un grande assente, finora, non vi pare? Esatto: il folk. Niente paura,Bags Under My Eyes è appunto un discreto brano in quel genere, ma è soprattutto la rilettura del traditional Days Gone By a giganteggiare: altra prova maiuscola affrontata con arrangiamento e nuovo testo ad opera del focoso irlandese, a chiudere un disco splendido che, al netto di qualche brano che si rivela superfluo, sarebbe da considerare un capolavoro.

https://open.spotify.com/album/1tjlXYBSBB2YGvvz7ORoAY?si=0vO0YVorRBCwadiJXkej6Q

 

 

 

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".