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The next life: La magia del rock nel racconto del dolore e della perdita

“E’ stato un giorno il rock giovane e forte
odorante di sangue fertile”.

Parafrasare Giovanni Lindo Ferretti mi sembra un buon modo per riflettere su quello che sta accadendo al nostro mondo, quello che trova la sua radice profonda nella passione per la musica chiamata genericamente Rock ma assorbente una moltitudine di generi e stili con un denominatore comune: sono nati tutti in data successiva al 1950.
Il Rock ha da tempo superato la mezza età e considerato che molti dei protagonisti che hanno segnato i molteplici percorsi del fiume nato da quella sorgente primaria che molti rintracciano nella nascita coeva dei Sun studios a Memphis e dei Chess studios a Chicago (1950) hanno iniziato le loro carriere quando avevano poco meno di vent’anni, questo significa che sono settanta e più le primavere che gli stessi, ove ovviamente sopravvissuti a vite spesso condotte nell’eccesso, stanno celebrando.
Vi sono altresì artisti che hanno iniziato a dire la loro a partire dagli anni 80 e che adesso stanno raggiungendo e superando i sessanta anni.
Eppure “non un paese per vecchi” dovrebbe essere il rock.next life
Il Pete Townshend del ’64 sarebbe senza dubbio d’accordo. Quello di oggi probabilmente molto meno.
Questo naturale passaggio del tempo sta dando luogo ad una serie di effetti che probabilmente solo vent’anni fa parevano quasi impensabili.
Il fenomeno della “storicizzazione” del rock è cosa ormai avviata da tempo e procede di pari passo con la progressiva e definitiva perdita della centralità dello stesso nella vita dei giovani di questa generazione (a tal proposito suggerisco la lettura di The Gloaming di Stefano Solventi )
I tour di riproposizione del proprio album più rilevante intrapresi da ogni singola band che ha avuto un minimo di riscontro in epoche passate sono pratica ormai indefessa.
Altrettanto frequente è la celebrazione di quasi ogni album nella data del proprio “…ennale” con un florilegio di uscite di cofanetti ultramegasuperdeluxe mirati a stuzzicare le nostalgie di chi quei dischi li ha acquistati, racimolando le monetine, ed amati alla data di uscita e che ora ha in gran parte le disponibilità economiche per potersi permettere acquisti anche molto onerosi.
La stampa che tratta l’attualità musicale vende un minimo rispetto a quella che tratta il passato del rock e cerca di difendersi gestendo comunque varie rubriche “retro” al suo interno e ove possibile mettendo in copertina nomi classici di sicuro richiamo.
Al contrario la stampa di volumi biografici e di saggistica sulla musica non è mai stata cosi fiorente con uscite praticamente settimanali quando solo 15 anni fa dovevi rivolgerti al limite al mercato anglosassone per leggere qualcosa di approfondito sui tuoi preferiti.
Le mostre celebrative delle grandi star degli anni 70, Bowie, Pink Floyd, Rolling Stones, staccano cifre di biglietti venduti da capogiro e addirittura diventano veri e propri tour per le capitali europee quasi in competizione con i tour di addio degli stessi artisti che raggiungono incassi mai raggiunti prima.
Numeri praticamente irraggiungibili per qualunque artista emerso dopo il 2000 e in calo ancor più drastico se limitiamo la verifica a quelli nati dopo il 2010.
Il futuro prevede tour di ologrammi (Zappa, Michael Jackson, Abba…) pur di lucrare sul bisogno di appagare la nostalgia.
Non uno scenario entusiasmante, tutto sommato.next life
Sembra proprio che tutto quello che ha disegnato i contorni e riempito di colori delle nostre vite andrà a scemare man mano che i nostri capelli si perdono e le nostre panze ingrassano.
Il che non vuol dire che non esisterà anche in futuro musica di qualità, solo che saranno sempre in meno a dedicarvisi e questo proprio mentre paradossalmente lo sviluppo dei servizi di streaming rende ogni proposta accessibile a tutti, a costi praticamente nulli per l’utente e incassi altrettanto nulli per l’artista.
In questo scenario tutto sommato malinconico, uno dei fenomeni più emozionanti per il suo portare a compimento l’unione tra arte e vita è quello dei dischi di commiato, veri e propri testamenti musicali
Sono, per intenderci, quelle opere che giungono in modo consapevole a sancire la fine della carriera di artisti che si avvicinano al crepuscolo dei loro giorni o che raccontano l’esperienza dell’addio a persone care all’artista.
Opere che trovano la loro ragione d’essere nell’affrontare temi centrali della vita umana che molto raramente sono stati trattati in precedenza nella storia del rock ed ovviamente, quando lo sono stati, la prospettiva era ben diversa e più distante da quella di un ultrasessantenne se non addirittura ultrasettantenne.
Temi quali la malattia, la perdita delle persone care, il senso della morte, la paura, la solitudine, sono talmente umani e talmente dolorosi da rendere a volte la fruizione di questi dischi faticosa  ma estremamente appagante e piena di pura bellezza.
Sono dischi che smuovono emozioni crude e che spesso hanno nell’ascoltatore come effetto inevitabile il “groppo in gola” o “la pelle d’oca” e in molti casi addirittura un rifiuto di ricimentarsi nell’ascolto.
E’ stato Johnny Cash il primo con gli American Recordings ad aprire questa nuova era di confronto vero e reale del Rock con la vecchiaia e con la morte. Il suo appropriarsi, con la voce virile indebolita e resa più fragile dall’età e dai lutti, di tante cover delle quali “Hurt” rimane la vetta assoluta, è stato un momento paradossalmente davvero nuovo e vibrante nel percorso della “nostra” musica.
Blackstar di David Bowie è stato il pilastro forse irraggiungibile di questo intersecarsi ineluttabile di arte e morte. Un testamento scritto mentre la malattia si prendeva il suo corpo ma non ancora la sua mente che ancora, fino a tre mesi prima dell’uscita, sperava di poter vincere la sfida.
Un disco regalato a tutti il giorno del suo compleanno per poi accomiatarsi solo dopo due giorni.
Un video Lazarus che da inevitabilmente i brividi ogni volta per il suo essere racconto dell’addio.
Pochi mesi dopo e’ stato Leonard Cohen a salutare il mondo, a cui aveva donato pura poesia in musica, appena un mese dopo l’uscita di You want it Darker (al quale viene ogni volta da aggiungere “You got it”), il disco definitivo per un uomo di 82 anni che ha cantato l’amore, la religione, la giustizia, la vita con parole che resteranno nei secoli e che lascia come epitaffio il suo racconto della morte e della fede.
Nell’autunno del 2018 è invece Marianne Faithfull a mettere a nudo in Negative Capability l’ultima fase della propria vita condotta per decenni sul filo del rasoio vivendo tutto e sopravvivendo a tutto.
Pur auspicando che per Marianne ci sia ancora tempo prima dei saluti, dall’album si capisce chiaramente che non è previsto un seguito e che probabilmente per lei, sofferente fisicamente e per il dover convivere con il dolore della perdita dei propri cari, salutare il mondo oltre che ineluttabile (Born to die) potrebbe essere un sollievo.
Altro percorso in tema di emozioni primordiali portate in musica è quello del racconto della perdita dei propri cari, familiari e amici, e della pena e delle riflessioni che questi avvenimenti drammatici portano nei rispettivi autori.
L’esempio piu’ attuale è quello della lunga e dolorosa elaborazione del lutto relativo alla morte prematura del figlio quindicenne Arthur da parte di Nick Cave, elaborazione trasferita in due opere distinte una, Skeleton tree, uscita a breve tempo di distanza dalla tragedia , la seconda, Ghosteen questione di questi giorni e quindi quattro anni dopo. Tra i due lavori, che segnano una indiscutibile cesura netta rispetto al Cave precedente si intravede un cambio di passo. E’ un po’ come vedere un uomo che era in ginocchio e che barcollava facendo fatica a stare in piedi, che riesce a riprendere a camminare pur sempre portando con sè un peso che non gli permette di avere un passo sicuro e solido. Due opere che segnano il passaggio dal totale smarrimento alla spirituale liturgia di elaborazione del lutto in un uomo che a fatica ha rimesso insieme i pezzi di se stesso anche attraverso un percorso che lo ha visto stringere un fortissimo patto affettivo con i propri fan sancito da concerti dal vivo in cui un palpabile senso di comunione è stato probabilmente per lui lenitivo così come il suo confronto diretto settimanale con gli stessi tramite i “The right hand files” sul proprio sito.
Sorge in qualche modo spontaneo l’avvicinamento di questi dischi a “Magic and Loss” un altro album ben più risalente pubblicato da Lou Reed nel 1992, un disco in cui raccontava la malattia e la morte per cancro di due carissimi amici (uno dei quali è l’autore Doc Pomus) seguendone le varie fasi in un modo carico di compassione e toccando vette liriche di spiritualità precedentemente sfiorate soltanto da “Songs for Drella” l’altro toccante addio, questa volta a Andy Warhol, condiviso con John Cale di due anni precedente.
In tempi più recenti un’altra testimonianza commovente, questa volta non sonora ma letteraria, di condivisione del dolore da parte di una artista che al rock ha dato molto e’ “Just Kids” il racconto autobiografico attraverso cui Patti Smith ha messo nero su bianco il suo vissuto relativo alla perdita, in un lasso di tempo molto breve, dei tre affetti più importanti della sua vita: il compagno di sempre Robert Mapplethorpe, il marito Fred “Sonic” Smith e il fratello Todd Smith. Pagine queste in cui si toccano momenti di indicibile emozione e un senso di accettazione dell’ineluttabile che richiama nel lettore tutta l’empatia che può coinvolgere degli esseri umani che non si conoscono personalmente.next life
Al fianco degli esempi riportati, non certo esaustivi, vediamo tanti artisti che affrontano in modo diverso il loro venire a patti con l’età e con la perdita; da un Dylan ed uno Young in corsa contro il tempo, ognuno a proprio modo, per svuotare gli archivi e raccontare ancora il più possibile il loro vissuto attuale con impeto quasi bulimico, ad un Roger Waters incazzato e polemicamente in prima linea contro gli sviluppi della società attuale, da un Crosby che è venuto a patti con un passato da sopravvissuto con dischi scintillanti, a dei Rolling Stones che non si arrendono al bisogno del palco ma che ritornano al blues degli albori per chiudere il cerchio, da un Paul Simon che abbandona i tour ma non rinuncia a scrivere ancora, ad un simulacro degli Who che tra un tour d’addio e l’altro non riescono davvero a lanciare la spugna sebbene la vena creativa sia ormai quasi spenta, da un Robert Plant la cui curiosità è ancora fulgida ad un Jimmy Page totalmente ripiegato sulla nostalgia del tempo che fu, da un Peter Gabriel incapace di ripetere se stesso che si rifugia nella riedizione di se stesso in varie forme, ad uno Springsteen che tra un tour milionario e l’altro torna all’intimità del teatro di Broadway per rivivere la sua vicenda artistica e personale e racconta in Western Stars cosa significhi per lui essere un rocker a settant’anni, ad un Iggy Pop che si libra libero sopra il suo passato e quello dei suoi sodali defunti con un album in cui, superando insicurezze da lui stesso ammesse, “dimostra” davvero di non dover più dimostrare nulla a nessuno tanto meno a se stesso.
Ognuno di loro alla prese con la propria umanità nella fase conclusiva della vita, raccontata affrontando, a viso aperto e senza timore di scoprire la propria debolezza negli anni della paura, della perdita e della solitudine.
Questo è forse il lascito più ricco di emozioni che la musica che amiamo ci sta donando in questo decennio che volge al termine.
“Il nostro rock è adesso debole e vecchio…”

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".