“Smells like a friend of mine”
24 Settembre 1991, 28 anni fa. (O giù di lì)
Ci sono date nella vita delle persone che arrivano silenziose, e vanno via lente e apparentemente neutre; tu vivi la tua giornata, regolare, anche un pò ripetitiva se vogliamo. Solito tran tran, solite facce. non ti aspettavi nient’altro che quello, e il copione è andato liscio.
Ma quelle giornate invece, sono lì, nonostante tutto ti cambiano la vita, che tu lo voglia oppure no. E magari tu le aspettavi maledettamente, da tanto, spesso senza saperlo.
Per me il 24 settembre del 1991 fu una giornata così. Anche se quell’esatto giorno usciva al mondo “Nevermind” dei Nirvana, un album che – piaccia o non piaccia – ha per sempre cambiato la musica rock a venire.
Intendiamoci, non mi ricordo assolutamente niente di quel giorno: un giorno come un altro del mio ultimo anno di Liceo, l’anno che mi stava portando velocemente, confusamente, con parecchie turbolenze e interrogativi silenziosamente gridati, alla maturità. Scuola iniziata da pochissimo e io seduto finalmente all’ultimo banco della classe dopo quattro anni passati in prima e seconda fila: questo esclusivamente per inedia, vale a dire assolutamente nessuna voglia o propensione a cambiare posto e uscire allo scoperto, decretando così l’ineluttabilità della mia mediocrità sociale di quel periodo, ed dando ragione di quella scolastica. Insomma, ultimo banco che era stato un obiettivo anelato e raggiunto con somma fatica (che poi chissà perché, per accaparrarti le ultime file al liceo, dovevi arrivare per primo in classe a inizio anno, quando poi nella vita futura sarebbe stato esattamente il contrario) insieme a quelli che sarebbero stati i miei compagni di ventura e di gioco per tutto quell’ultimo anno. E in buona parte, anche nella mia vita futura.
Comunque, quel giorno probabilmente passato a schivare la solita interrogazione di filosofia a sorpresa, e a cazzeggiare durante l’ora d’inglese davanti alla prof. meno preparata dell’ultimo millennio, era a mia insaputa il giorno che mi avrebbe cambiato la vita: o per lo meno, che avrebbe di molto aiutato i miei futuri gusti musicali.
Ho controllato: su wikipedia non esistono eventi storici memorabili che portino la data del 24 settembre 1991, probabilmente dev’essere stato il giorno più noioso del decennio, o forse del secolo. Uno di quei giorni che deve per forza passare perché in calendario, ma che ineluttabilmente vanno poi via e nessuno – già a partire dal giorno successivo – ne saprà mai più nulla.
Ma poi, qualche mese più tardi, quel giorno divenne un faro nella nebbia per me, il primo di una lunga serie di scalini nel fantastico e malinconico empireo della musica rock. E il risultato di quel giorno lì, quel ventiquattrosettembremillenovecentonovantuno (scritto tutto attaccato proprio per l’importanza personale che ebbe) qualche mese più tardi – durante uno di quei freddi e ingrigiti pomeriggi torinesi a cui noi sabaudi siamo stati abituati fi da piccolo – mi attraversò il cervello come un raggio laser psichedelico: un video, una canzone, un gruppo di ragazzi a me ancora semisconosciuti, e quella improvvisa visione diurna, tra uno stravaccamento sul divano e il finto interesse per i libri di storia che tenevo di fianco a me mentre guardavo, come sempre, Mtv (quando Mtv era ancora Mtv, e non un canale trash per giovani adolescenti debosciati e convinti che essere padri e madri a 16 anni sia uno status symbol). Mi alzai in piedi, folgorato dalla musica e da quell’aria cupa e triste e, al tempo stesso, arrabbiata che aveva quel ragazzotto americano un po’ macilento, biondo e con gli occhi color del ghiaccio secco, che cantava con la voce più tagliente che avessi mai sentito. Un misto di varichina e acciaio, acida e affilata al tempo stesso. E mentre quelle immagini mi scorrevano addosso colpendo i miei giovani occhi di imberbe diciottenne, mentre quelle note amplificate e distorte riempivano i miei giovanissimi e vogliosi padiglioni auricolari di una consistenza che di certo doveva essere l’esatto identikit di quel karma musicale che tanto avevo ricercato, iniziai a saltellare sul posto, rapito e ipnotizzato, mentre con tutta certezza mia mamma mi stava guardando come se fossi un piccolo bambino di satana.
Ricordo ancora che dissi “Cazzo!!! Cazzo!!! E Questi chi sono?”. O forse lo pensai solo: ma corsi a segnarmi il nome del gruppo, e della canzone, poi dell’album. Andai a ravanare nel mio borsellino. c’erano, 34000 lire, un capitale per quei tempi. ” Com’era? Ah si, ‘Smells like’…mmmm…fanculo a quella incompetente di prof, figurati se mi ricordo il resto del titolo!!” Il giorno dopo me ne andai in negozio (si chiamava ‘RockVille’ Uno dei miei paradisi in terra del periodo), comprai quello che dalla copertina là per là mi era sembrato una raccolta di sigle di cartoni – o di brani per corsi di acquaticità dei neonati – e mi esclusi dal resto del mondo per le successive 3 ore, ascoltandolo, assorbendolo e ricanticchiandolo in loop, senza mai uscire da quello che era il mio classico torpore autistico temporaneo con la musica in ascolto.
Da allora il torpore autistico mi è rimasto ogni qual volta ascolto la “mia musica” – di cui di certo “Nevermind” riveste il ruolo di assoluta preminenza che gli compete – quel gruppo di cantanti americani molto sbracati è diventato nel tempo quasi uno status symbol dei ragazzotti che vogliono far vedere di conoscere anche la musica rock (ma vagli a chiedere come inizia ‘Territorial Pissing’, e li vedrai smarriti con la tipica espressione di un Ramazzotti qualunque a cui è stato chiesto di intonare ‘Dazed and confused’), e quel biondo ragazzo americano un po’ macilento ma con la voce di varichina e acciaio, che in jeans strappati, maglietta grigio scura a righe verdi maltrattava con assoluta maestria una strepitosa Fender in una palestra, quel ragazzo per sempre giovane non è che un volto sulle magliette vintage e alla moda dei teen agers di oggi.
E un dannato yankee suicida che ha cambiato la storia del rock. E la mia.