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Yo la tengo – 20 anni da “And then nothing turned itself inside out”

La notte. Cosa c’è di più fiabesco e terrificante, riflessivo e sognante della notte?
Da sempre musa per eccellenza di artisti di ogni ordine e grado, ammalia con il suo fascino discreto orde di esseri umani che, sapendola interrogare a dovere, ne carpiscono verità personali difficili da trovare altrove.
Lo sanno bene Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew, alias Yo la tengo. Ai vertici della loro creatività, in mezzo del cammin della lor vita, ormai mitologia vivente del sottobosco indie americano, le dedicano nel 2000 la loro lunga suite di 77 minuti e 13 brani: “And then nothing turned itself inside out”. Il lungo titolo è dovuto ad una citazione di Sun Ra: “…At first there was nothing…then nothing turned itself inside-out and became something”.
Gli Yo la tengo nascono ad Hoboken nel 1984 quando Ira e la compagna Georgia decidono di creare una band, travolti dalla loro passione in comune più grande: la musica. Il nome spagnoleggiante deriva però dalla seconda più grande passione di Ira: il baseball. Un giocatore dei New York Mets doveva “chiamare la palla” per evitare lo scontro col compagno di squadra (un po’ come fa il portiere con il difensore in una partita di calcio) ma il compagno venezuelano non parlava ancora bene la lingua inglese: da lì “Yo la tengo” anziché “I’ve got it”. Il buon vecchio Ira da grande citazionista ed esperto di cultura pop non poteva lasciarsi sfuggire questa occasione per la sua neonata band.
La cultura musicale del trio è tale da riuscire a coverizzare praticamente qualsiasi canzone che gli venga richiesta nei loro concerti, complice anche il passato da ex critico musicale di Kaplan. Stazionari nella periferia del grande impero di New York ovvero il New Jersey, più precisamente nella città di Hoboken, trascorrono le loro vite tranquille tra quotidianità, dischi fatti e ascoltati e concerti fatti e vissuti. Come non citare le annuali residency in occasione di Hanukkah, di solito 8 concerti in altrettante sere per festeggiare la festa ebraica e contemporaneamente anche un po’ il Natale, dapprima nel leggendario Maxwell’s di Hoboken e poi al Bowery Ballroom di New York.
Passano tre anni tra il camaleontico “I can hear the heart beating as one” del 1997 e il successivo “And then nothing turned itself inside out”. Un’eternità per una band che ha abituato i suoi fan ad uscite annuali. L’esito però ripaga del tutto le aspettative. Se il primo era un caleidoscopio di generi diversi, tra il rock e la bossanova, tra ritmi jazzati e sperimentazioni avanguardiste, il secondo è un pezzo monolitico. Il tema e l’atmosfera notturna la fanno da padrone, le voci di Kaplan e della Hubley sono sempre soffuse, quasi a non disturbare troppo l’ascolto del fruitore, quasi a voler accompagnare la riflessione che spontaneamente si auto-genera nella mente dell’ascoltatore. Il flusso è un continuum: dalla prima traccia “Everyday” in poi sembra quasi di ascoltare un concept, tra malinconia e ricordi del passato, a volte tristi a volte felici, come le tracce che ripercorrono la storia d’amore del chitarrista Ira e della batterista Georgia, con le loro voci che si intrecciano in un legame che passa dalla vita giornaliera alle note musicali senza passare dal via. Pochi i sussulti. I bit diventano più ritmati in “Let’s save Tony Orlando’s house” e in “You can have it all” fino a accelerare decisamente in “Cherry Chapstick”, l’unica traccia in cui Ira Kaplan si permette di sfoggiare le sue virtuose doti da chitarrista. Il tutto però è funzionale al mood deliziosamente sonnacchioso del disco, per un risultato omogeneo ed elegante che rende l’album una inscalfibile pietra miliare della musica Indie, esattamente come il frizzante predecessore. Quasi 2 facce della stessa medaglia, tesi ed antitesi delle sterminate capacità dei mostri sacri della periferia del rock. Il tutto si conclude con i 17 minuti abbondanti di “Night falls on Hoboken”, che già nel titolo riassume il tema dell’LP e il suo perfetto finale, ultimo attimo prima di lasciarsi andare, subito prima che i pensieri e le emozioni si mischino con i sogni e che realtà esterna e interna sfumino i loro confini, subito prima di dimenticare tutto, subito prima di lasciarsi sconfiggere, subito prima di fermarsi per poi ripartire.

 

 

Andrea Castelli

“All I want in life is a little bit of love to take the pain away, getting strong today, a giant step each day” (“Ladies and Gentlemen we’re floating in space” - Spiritualized)